Il nichilismo ed il problema di Dio sono strettamente legati. Il nichilismo è la negazione di Dio.
E infondo, il nichilismo non è che la disperazione, propriamente la disperazione di Dio, derivata dalla perdita dell’unità di senso. Questo dolore è l’angoscia del possibile. Dio è il dolore che nasce dalla paura della morte.
Divenuti orfani, gli uomini, non avrebbero potuto che stringersi tra di loro in un unico vincolo di commossa solidarietà, poiché ormai ciascuno sarebbe stato tutto per l’altro. Di conseguenza, liquidata l’idea dell’immortalità, tutto l’eccesso dell’amore per il Dio che l’aveva incarnata avrebbe necessariamente dovuto piegarsi al mondo e agli uomini, ad ogni filo d’erba. Essi avrebbero cominciato ad amare la terra e la vita irresistibilmente e nella misura in cui gradualmente prendevano coscienza della propria precarietà e finitezza, amando ormai di un amore particolare, non più quello di prima. È l’amore che non si oppone alla morte, ma dalla morte nasce come trepidante consapevolezza della mortalità. Sia pure domani il mio ultimo giorno – avrebbe pensato ognuno, guardando il sole al tramonto – non fa nulla, io morirò, ma resteranno tutti loro, e dopo di loro i loro figli.
Ma tutto ciò non è che una bella fantasia, anzi, la più inverosimile.
Tuttavia, la furiosa e indecente sete di vivere di Dostoevskij e dei suoi personaggi resterebbe tale anche se gli si dimostrasse che la vita non è che caos orribile e maledetto, un trucco diabolico.
Come non chiamare in causa Dio, allora?
Secondo Ivan Karamazov l’idea di Dio è sublime, e semmai è da sbalordire il fatto che sia venuta in mente ad un animale selvaggio e cattivo come l’uomo. Dio non potrà non rivelare infine un suo occulto disegno perseguito attraverso la farsa umiliante delle contraddizioni umane, sciogliendo il male e la sofferenza in un’eterna armonia.
Ciò che Ivan non accetta è di unirsi al coro: egli preferisce appunto (come già prima anticipavo) restare dalla parte della sofferenza rivendicata - la sofferenza dei bambini, in particolare- perché quella sofferenza non può e non deve servire per essere piegata ad altro, sia pure ad un’armonia che la fagociti in un’eternità di redenzione.
La sofferenza, là dove non si lascia piegare ad altro, e anzi là dove lo è da Dio, apparirà talmente scandalosa da negare Dio stesso.
Questo scandalo del Male è strettamente legato alla libertà, al libero arbitrio dell’uomo. E questo libero arbitrio è dato da Dio. Il Male quindi non viene che da Dio, ed a lui è legato.
Ma chi, se non Dio, è reclamato da ciascuna di quelle stesse sofferenze, come colui che soltanto le può raccogliere, conservare, salvare dal nulla?
Dostoevskij stesso mette in crisi questo nichilismo: se Dio ha preso su di sé il carico, il peso del male (fino a farsi maledizione, per usare l’espressione paolina) nella sua forma più folle e scandalosa, annullandosi sulla croce, morendo, allora non è più possibile far valere contro Dio questo scandalo e questa follia. Questo è appunto il nichilismo ad esigerlo. Dio è identificato in questo scandalo e follia, perché, paradossalmente, è solo difronte a Dio che il male è scandaloso. Paradossale ed efficace è quindi dire che il male è la prova dell’esistenza di Dio!
Il nichilismo si spezza: perché è Dio che, negando se stesso, portandosi al niente e portando il niente a sé, rende sperimentale la negazione, l’annientamento.
Bisogna negare Dio, e andare oltre. Contemplando entrambi gli abissi: quello del dubbio e quello della fede. Quello del male e quello della libertà.