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Discussione: Er Presidente
  1. #1
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    Er Presidente

    Come Vi avevo anticipato nel mio post dove vi raccontavo della sciagurata partita fra il sottoscritto, Umbertone Super Moderator e L’inqualificabile “Andrea” vi rivelo il quarto giocatore che io avevo definito “un Tale”

    Dunque trattasi NIENTEPOPODIMENOCHE’ del presidente del GRIFONE risiko club di Venezia che sotto un nick alquanto improbabile (Claudewitz o qualcosa di simile ) che lui dice che sia il nome di un generale prussiano (a me sembra quello di un campo di concentramento nazista) ha fatto fesso il sottoscritto
    HAHAHAHAHAHA (bravo Marco…ci sono cascato con tutte le scarpe!)

    Nulla da eccepire sulle tue notevoli capacità di giocatore dal Vivo (infatti sei fra i primi d’Italia) Ma per quanto riguarda RD c’è ancora qualcosetta che devi imparare…purtroppo heheheh!

    Hai fatto arrabbiare Umbe…che non credendo alle tue affermazioni nelle quali dicevi che eri il mio presidente…ha Sbottato “ se io ho un presidente così cambio Club” hahahahahahahah

    E quando gli hai detto che hai una fila di COPPE a casa, Umberto ti ha detto che a casa sua ha una fila di PROSCIUTTI…ri hahahahahahahahaha!!!

    Ci siamo sentiti telefonicamente stamattina…così ho potuto appurare che veramente eri tu…
    Ti chiedo scusa per le offese gratuite che anche tu ti sei beccato da quel Co*****ne di Andrea !!!
    Vieni a trovarci ancora…io e Umberto ti aspettiamo…ma cambia quel nick…mi fa venire il mal di testa …

    Ti propongo “Coppa_del_nonno” oppure meglio ancora “The_president_cup” !

    A venerdì 09 Maggio per il torneo ciao

    Maurizio

    Ps: quella partita è stata annullata (c'è un Dio!)


    La felicità è come una farfalla: se l'insegui non riesci mai a prenderla, ma se ti metti tranquillo può anche posarsi su di te.
    chakazulu non è in linea
  2. #2
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    Re: Er Presidente

    inviato da: chakazulu
    Vieni a trovarci ancora…io e Umberto ti aspettiamo…ma cambia quel nick…mi fa venire il mal di testa …

    Ti propongo “Coppa_del_nonno” oppure meglio ancora “The_president_cup” !
    Confermo tutto quello detto dal Maggiore... alle due del mattino con un testa di pitcz come Andrea ho forse scherzato pesantemente ..parlado ci cambiare club...comunque ha ragione Chaka al Digital se giochi come stanotte non ne vinci una te lo assicuro...almeno dalla modestia della fila di prosciutti

    Umberto
    Umberto non è in linea
  3. #3
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    er presidente

    Ebbene si, ero io!

    Ma! Non toccatemi Clausewitz. Guarda bene l'immagine di Clausewitz a sinistra e imprimitela bene nella mente: Carl von Clausewitz, generale Prussiano dell'800, non è niente poco di meno che il teorizzatore della strategia militare occidentale.

    Detto niente! In pratica, tutta la strategia militare occidentale dall'800 in poi si basa sugli scritti e sulle teorie di Clausewitz. Clausewitz si contrappone a Sun Tzu, teorizzatore della strategia militare orientale.

    Ho esagerato un po' nella scelta del mio nickname? Mah, spero di poterlo emulare .... ma visto la mia prestazione di ieri era meglio se sceglievo Capitan Findus come nickname!!!

    Umberto, non ti preoccupare, non me la prendo facilmente, godo per fortuna di abbastanza autocontrollo. Mi ha fatto imbestialire alla fine andrea, quando voi avevate già abbandonato la partita, insultandomi a tutto andare, in modo anche molto pesante. Questo francamente non lo capisco ... o meglio, lo capisco: c'è chi è capace di insultarti solo perchè protetto dallo schermo video, ma tra la gente ha la coda di paglia!

    Vabbè. Spero che vada meglio le prossime volte.

    Ciao
    clausewitz non è in linea
  4. #4
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    Gian Enrico Rusconi - Clausewitz, il prussiano. La politica della guerra nell'equilibrio europeo - Einaudi, Torino 1999

    Bel libro, scritto ottimamente, che traccia una biografia fisica e
    intellettuale di Carl von Clausewitz, uno degli autori di "cose di guerra" (polemologia) più citati e meno capiti.
    Come Machiavelli è stato ridotto alla frase "il fine giustifica i mezzi", così Clausewitz è stato ridotto a "la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi".

    Quello che contraddistingue Clausewitz rispetto a predecessori,
    contemporanei ed anche dai suoi "allievi" è il rifuggire da ogni schema a da ogni metodo; secondo Clausewitz la guerra è arte perché come la pittura o la letteratura (il paragone è mio, Clausewitz si accontenta dell'ebanisteria) l'interprete, o meglio il genio, non segue una regola fissa ma interpreta il passato secondo il suo tatto e la sua sensibilità; per questo c'è differenza
    tra un Salieri ed un Mozart come tra Carlo d'Asburgo e Napoleone Bonaparte.
    Rusconi nel suo libro mette bene in evidenza la nascita e lo sviluppo del pensiero clausewitziano, soprattutto mette in guardia sul fatto che non è un pensiero finito, nel senso che la morte troncò il processo di revisione del "Vom Kriege" che venne stampato dopo la sua morte a cura della moglie Marie
    von Bruhl (che da sola meriterebbe un saggio, vista la sua costante e fondamentale assistenza nel lavoro del marito, tanto da essere un cardine della corrispondenza a tre tra lei, Clausewitz e Gneisenau).

    We are the sons and daughters of all the freedom fighters.
    And there are still many rivers to cross.
    Hands in the air, screaming loud and clear for freedom, justice and equality.
    There is no black or white, there is only right and wrong.
    We are unknown heros, we are flesh and we are blood.
    We are the great future.
    We need to get back to the joy of living.
    We are five fingers of an empty hand.
    But together, we can also be the fist.
    Sometimes change can be as simple as two hands reaching for one another.
    Clap your hands.


    highlander non è in linea
  5. #5
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    Re: er presidente

    inviato da: clausewitz
    Ebbene si, ero io!
    Ma! Non toccatemi Clausewitz. Guarda bene l'immagine di Clausewitz a sinistra e imprimitela bene nella mente: Carl von Clausewitz, generale Prussiano dell'800
    Marco..mi inchino alla tua cultura militare

    ma c'è un problema...assai imbarazzante...o ti fai 2 o 3.000 post o parli con edo che ti cambi il titolo da missile a moderator (ne hai il diritto in quanto presidente del Grifone Risiko club)...oppure il buon generale Carl von ect ect. si rivolta nella tomba.... da generale a missile...



    :ahahah:
    chakazulu non è in linea
  6. #6
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    Valerio Romitelli
    Rovesciare Clausewitz?[1]


    Il “Secolo breve”, il secolo della “ seconda guerra dei trent’anni” o della “guerra civile europea”. Simili formule uscite da autorevoli bilanci storiografici del Novecento convergono nel caratterizzarlo come un pezzo di storia completamente plasmato dalla guerra, dal rapporto tra guerra e politica.

    A questo proposito, il criterio attualmente più utilizzato è ispirato alla distinzione generale tra totalitarismi e regimi democratici. Così hanno finito per appannarsi, fino quasi a svanire, le discriminanti che avevano dominato la scena per tutto il lungo secondo dopoguerra: quelle tra fascismi e antifascismi e/o tra capitalismo e comunismo.

    In ogni caso, oggi se si parla o si studia di guerra e politica, tanto più se nel Novecento, è buona regola mantenere come criterio di distinzione fondamentale l’opposizione tra regimi liberal-democratici e regimi totalitari. Sarebbe dunque la forma statale a decidere del carattere e della natura della guerra.

    Non così era per due dei modi di pensare il rapporto tra guerra e politica, i quali si sono imposti come tra i più intellettualmente significativi del Novecento: quello di Carl Schmitt e di Michel Foucault.

    Due storici ed intellettuali, di cui ricorderò le enormi differenze, ma che hanno almeno due punti in comune: da un lato, di analizzare il rapporto tra politica e guerra non come “effetto collaterale” di un determinato regime statale, ma come suo carattere cruciale; dall’altro, di avere un’idea simile rispetto a Carl von Clausewitz e alla sua opera principale, Vom Kriege, che ha fatto scuola per tutto l’Ottocento e anche oltre. In effetti, entrambi questi studiosi, ciascuno in un ben determinato ed importante momento delle loro ricerche, fanno a proposito di quest’opera una dichiarazione quasi identica: che l’arcinota massima del generale prussiano secondo cui “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi” va rovesciata; per cui si dovrà dire che è la politica ad essere continuazione della guerra con altri mezzi. Inversione dunque tra mezzi e fini: la guerra che decide della politica e non viceversa.

    Naturalmente, si può svalutare questa coincidenza come puramente casuale, come un incontro fortuito di due itinerari intellettuali ed esistenziali profondamente eterogenei. Ma, diversamente, si può anche considerare questo punto di incontro del tutto significativo; e leggerlo quindi come un nodo problematico profondamente rivelatore dei significati che guerra e politica hanno avuto per la realtà del Novecento.

    Sarà dunque questo nodo problematico che proverò qui evidenziare, cercando di sottolinearne la singolarità.

    Tre saranno dunque le questioni affrontate: 1 le condizioni intellettuali e pratiche nelle quali Schmitt e Foucault si sono posti la questione del rovesciamento della massima di Clausewitz; 2 la portata che questa massima aveva nell’opera dello stesso Clausewitz; 3 quali problemi politici e bellici vengono chiusi e quali vengono aperti dal rovesciamento della sua massima.

    Il tutto dedicando particolare attenzione a distinguere tra quanto precede e quanto segue il Novecento, relativamente ai modi di pensare il rapporto tra guerra e politica.

    La distinzione tra i secoli sarà qui dunque decisiva. E’ una precisa opzione metodologica, alternativa a quella, ad esempio, che fa della secolarizzazione un unico processo. Altra scelta di metodo che fa da sfondo a questo testo sta nel cercare, dal punto di vista della storia della politica, le parole problematiche di ogni secolo, ovvero il loro disporsi come categorie d’approccio al reale. Un orientamento, questo, diverso da quello, ad esempio, che punta a ricostruire la genealogia dei concetti politici anche attraversando più secoli.

    Così si è infatti ragionato durante il seminario che ho recentemente tenuto su questi argomenti assieme al prof. Sylvain Lazarus (presso l’Université Paris8 nel corso d’Anthropologie du politique) e di cui qui ripropongo alcune riflessioni.
    highlander non è in linea
  7. #7
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    1

    Anzitutto, fisso qualche punto di distanza tra Schmitt e Foucault.

    Quasi inutile dire che riproporrò punti ampiamente scontati e che lo farò in uno stile schematico, ma tale puntualizzazione è obbligatoria per porre i termini della comparazione che in seguito coinvolgerà anche Clausewitz.

    Tali distanze, sono evidentemente enormi, sia in termini cronologici sia di contesto, oltre che per problematiche di ricerca: d’ispirazione giuspubblicistica per il primo, epistemologica, per il secondo.

    La tesi del rovesciamento della massima di Clausewitz, Schmitt la propone nel 1932, nel momento culminate della crisi della Repubblica di Weimar e dell’approssimarsi al potere del movimento nazionalsocialista, mentre Foucault la propone nel 1976 e in una Francia interessata, come altri paesi occidentali di quel tempo, da marginali, ma vivaci movimenti di rivolta sociale.

    Per entrambi, comunque, la proposta di questa tesi segna una svolta delle loro ricerche. Per entrambi si tratta di una svolta resa necessaria dalla constatazione della fine di una lunga epoca storica.

    L’epoca storica caratterizzata dalla parabola della classica teoria della sovranità, quale si è configurata e dispiegata in Europa a partire dal XVI secolo, e che in seguito è restata per più di tre secoli dominante in ambito giuridico e attraverso questo in tutti gli altri ambiti della vita pubblica.



    Per Schmitt, stando ai suoi testi tra gli anni Venti e Trenta riconfermati e riproposti tali e quali negli anni Sessanta, caratteristica decisiva di questa teoria, di cui Bodin è considerato il fondatore, è la separazione tra guerra e politica come due dimensioni ben distinte: essenzialmente di politica estera, la prima, di politica interna, la seconda. La guerra, dunque, come problema tra Stati, mentre la pace come problema di polizia, di sicurezza, legalità e legittimità, all’interno di ogni Stato, dotato del monopolio della decisione politica.

    Questa è la figura della sovranità che per Schmitt il Novecento mette radicalmente in crisi.

    La data cruciale è costituita dai trattati di Versailles seguiti alla prima guerra mondiale. La novità epocale di tali trattati viene vista anzitutto nel loro effetto sugli Stati sconfitti d’area germanica Anziché restituire loro la capacità di garantire pace all’interno dei loro territori, a Versailles si decide di tenerli in una condizione di vinti, e ciò in nome di una pace internazionale. Ecco dunque profilarsi una figura di pace esterna schiacciante la sovranità di uno e più Stati, privati del monopolio della decisione politica e quindi esposti al loro stesso interno alla possibilità di guerra civile. Il caso della Germania di Weimar, non solo strangolata dagli obblighi di indennizzare i danni procurati in guerra sui nemici, ma anche incalzata dal comunismo intento a cogliervi un successo ancor più ambito di quello già ottenuto in Russia, diventa così il caso quant’altro mai emblematico. La svolta epocale in tema di sovranità statale, così come la pensa Schmitt, ha qui il suo epicentro. Fare della politica una continuazione della guerra per lui significa ritrovare il senso più profondo della sovranità, per riqualificarla e riproporne una versione all’altezza dei tempi. A questo punta tutta la teorizzazione del Politico come genere perennemente fondato sull’opposizione amico/nemico. Ma questa teoria punta anche a concepire che la crisi della Repubblica di Weimar possa risolversi con un riscatto della sovranità tedesca e del suo originario senso bellicoso. Quello stesso senso bellicoso che secondo lui anche le potenze vincenti di Versailles stanno di fatto portando all’estremo. Delegittimando ogni possibile ostilità su scala planetaria, la loro prospettiva pacifista ed umanitaria, infatti, finisce per trattare ogni inimicizia come inimicizia assoluta, solamente da annientare. Ecco dunque che riscoprire la guerra al cuore della politica interna ed estera, al di là di ogni distinzione classica, significa anche poter riconoscere i nemici interni ed esterni contro cui combattere, senza negarne, a parole o coi fatti l’esistenza. Ma perché ciò avvenga in Germania, occorre che il popolo tedesco riconquisti la sua sovranità stringendosi attorno al movimento che fa della guerra su ogni fronte il suo modello d’azione e di organizzazione statale.

    Che il Partito-Stato nazionalsocialista abbia trovato così un grande apologeta, quanto meno all’inizio, non è episodio trascurabile. Ma ciò non toglie che l’impostazione schmittiana della crisi novecentesca della sovranità statale riservi sempre infiniti stimoli.



    Tutt’altro è comunque il modo di pensare la crisi novecentesca della sovranità statale da parte di Foucault. Stando ai suoi “scritti e detti” attorno al 1976, la decomposizione novecentesca della sovranità statale è senza rimedio. E’ proprio da essa che “bisogna difendere la società”. Società che vive grazie alla resistenza opposta dalla moltitudine infinita dei corpi alla sovranità del potere, dei suoi disciplinamenti, delle sue trasformazioni. La storia di questa opposizione è decisiva per analizzare anche la sua attualità. Classicamente, il corpo del sovrano concentrava simbolicamente tutto il potere sulla molteplicità dei corpi dei sudditi, in un contesto dominato dalla proprietà sulla terra e dalla figura giuridica del giudice come modello di ogni figura intellettuale. Ma a partire dal Settecento, per innumerevoli fattori tra cui la rivoluzione industriale, si dà tanto la mobilitazione e il disciplinamento della molteplicità dei corpi, quanto il diversificarsi del potere e del sapere. Il mantenersi novecentesco della teoria della sovranità, il suo tradursi nelle formule della sovranità popolare, non è allora che il mantenersi di un’unità del potere a scapito della resistenza ad essa offerta dalle infinite differenze insite nella molteplicità dei corpi. Una resistenza irriducibilmente molteplice, dunque, di cui il proliferare delle scienze umane e sociali a partire dall’Ottocento riesce in diversi gradi e modi a dar conto, nonostante il persistere della tradizionale teoria della sovranità sempre riattualizzata in ogni pratica giuridica. Ecco allora che per Foucault riscoprire la guerra al cuore delle strategie del potere significa rompere una volta per tutte con ogni rappresentazione della società nei termini giuridici della sovranità. Significa approfondire i solchi che da sempre separano l’unità del potere e la moltitudine dei corpi. Significa predisporre un nuovo terreno problematico nel quale il sociale, da sempre vittima di guerre interne ed esterne, da sempre rappresentato da politiche aventi la sovranità come posta in gioco, può cominciare a difendersi davvero, partendo dalla moltitudine dei corpi che lo compongono. Rovesciare Clausewitz, sostenere che è la politica ad essere la continuazione della guerra con altri mezzi, non è quindi che la necessaria conseguenza del fatto che tra società e potere il conflitto si è finalmente rivelato irriducibilmente “bio-politico”, senza altra definitiva soluzione che la vittoria della prima sul secondo. Poiché è la vita stessa ad essere individuata come la vera posta in gioco della politica, ogni contesa in termini giuridici e di sovranità appare chiaramente un surrogato d’altri tempi, e l’unica prospettiva per difendere i<l sociale sta nel guerreggiare col potere.
    highlander non è in linea
  8. #8
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    2

    Ritorniamo ora a Clausewitz e al suo tempo in cui la sovranità statale configuratasi in Europa, ben lungi da dar segni di cedimenti irrimediabili, comincia ad entrare in quella sorta di piena maturità rappresentata dal lungo ciclo degli Stati Nazionali, la cui prima e chiara affermazione può forse datarsi con la battaglia di Lipsia del 1813, chiamata appunto “delle nazioni” e che segna l’inizio del tracollo napoleonico.

    La nostra questione è ora provare a evocare il senso originario della fatidica massima di cui, dopo all’incirca un secolo e mezzo Schmitt e Foucault propugnano i rovesciamenti appena delineati.

    La prima difficoltà sta nella controversa originalità dell’opera maggiore in cui è contenuto tale detto: Vom Kriege. Un’opera lasciata dall’autore deliberatamente incompiuta e pubblicata postuma con l’introduzione della moglie, da sempre partecipe quanto altri mai delle ricerche del marito.

    Decisivo è il modo in cui se ne interpreta la problematica: o valutandola su un modello problematico precostituito, come accade in molta della sterminata letteratura che lo concerne, o cercandone il senso all’interno delle sue stesse categorie. E’ in quest’ultima direzione che qui tento qualche passo.

    Fuori discussione è che non si tratti di una filosofia della guerra, come in più occasioni lo stesso Clausewitz ribadisce. Così non vanno sopravvalutate le indubbie influenze esercitate sulla sua formazione dagli insegnamenti di Kant e Fichte, che pur egli ha modo di studiare a fondo.

    Piuttosto è da ricordare che per ben dodici anni, dal 1818 al 1830, egli è direttore dell’Allgemeine Kriegsschule, al tempo stesso in cui nell’università tedesca la filosofia della storia comincia a perdere la sua egemonia sulla storiografia emergente; e ciò grazie soprattutto all’opera di Leopold von Ranke, il quale, non a caso, nel 1832 accoglie nella sua rivista “Historisch-Politische Zeitschrift” nel 1832 un testo postumo dello stesso Clausewitz.

    Senza discutere sulle sue qualità storiografiche ( come fa ad esempio Paret, traduttore americano di Vom Kriege), mi pare comunque chiarificante situare tale opera all’interno di quella diversificata proliferazione dei saperi che Foucault, lo si è già notato, vede aprirsi con l’Ottocento. Quei saperi, che in aerea tedesca sono promossi dalla riforma humboldtiana dell’università e che in tutta Europa si affermeranno in seguito come scienze storiche, umane e sociali.

    Del resto tra Foucault e Clausewitz c’è ben poco di comune, e non solo per distanza temporale. Anche quest’ultimo certo si occupa di corporeità e disciplinamento, ma lo fa da soldato: non li tratta che come mezzi, tra quegli “altri mezzi” che distinguono la guerra dalla politica, pur continuandola.

    Quanto alle differenze dell’approccio di Clausewitz, rispetto a quello di Schmitt, che pure lo rivendica come antecedente, sono anch’esse considerevoli. Niente è, infatti, più estraneo al modo di pensare di generale prussiano che una teoria o una storia della sovranità, per quanto critica o alla ricerca di un’alternativa. La sua ottica esclude espressamente qualsiasi punto di osservazione che sovrasta e include il rapporto tra guerra e politica, come fa appunto quello della sovranità. Per lui, la sovranità statale resta sempre un dato fuori discussione, rilevante solo in quanto condizione interna ai rapporti storicamente esistenti tra politica e guerra.

    Nell’impostazione di questo pensiero ci sono comunque delle caratteristiche ben precise che hanno attirato le simpatie sia di Schmitt, sia di Foucault, oltre ai suoi tanti altri estimatori: la sua capacità di riscattare le questioni della strategia e della tattica militare dalla condizione di semplice tecnica, ad uso esclusivo dei esperti e aspiranti soldati, senza d’altra parte ricadere in una problematica di tipo normativo. Clausewitz, in effetti, non pone regole, non discute di cosa sia legittimo o illegittimo in guerra. Nelle sue parole non risuona nessuna eco di ragionamenti morali e giuridici. Neanche l’accostamento con Montesquieu, che pure è uno dei suoi autori preferiti, chiarisce dunque un gran che ( malgrado gli stimoli che Aron sa ricavarci). Certo, anche nello Spirito convocato dal generale prussiano si può ancora cogliere una dimensione del tutto soggettiva e razionalistica ( quale appunto quello de L’ésprit des Lois ), ma non in rapporto a una qualche Legge. La guerra, infatti, egli sostiene, lungi dal sottostare ad alcuna norma naturale o sociale, è il regno della fortuna, del caso, del pericolo, della fatica. Una “bestia indomabile”, una “cosa”, che fa “attrito” nei confronti di qualunque teoria, ma che può essere affrontata solo col coraggio diretto da un’intelligenza capace di tenere conto dell’esperienza e delle probabilità di successo o insuccesso di ogni azione.

    Il pensiero di Clausewitz si può dire che parta da una constatazione e da una prescrizione in fondo assai semplici: che la guerra nell’Ottocento può avere una potenza assoluta per cui occorre porsi nei suoi confronti con intelligenza, ovvero non trascurando mai dal pensarne condizioni ed effetti. Condizioni ed effetti, tra i quali primeggiano quelle che gli chiama “le relazioni tra governi e popoli”, di modo che l’intelligenza della guerra non può non essere intelligenza politica.

    Ma “politica” in che senso, dal momento che tra governi e popoli non esiste ancora alcuna consistente struttura rappresentativa né la questione delle classi sociali si impone ancora col fragore che avrà solo col Quarantotto?

    La distinzione tra secoli è decisiva nel profilare il campo problematico di Vom Kriege. Il Settecento è il secolo dell’esteriorità della politica rispetto alla guerra. Le autocrazie volentieri ne affidavano le sorti a mercenari, e ne facevano un uso limitato, per dispute dinastiche e di frontiera. Cosicché le teorie di questo secolo potevano limitarsi al “metodismo”, ovvero ad approcci che davano per scontato che la guerra fosse solo un mezzo. Se Clausewitz si diverte ancora a prendere in giro i dogmi grotteschi che gli specialisti del “metodismo” presentano come tecniche incontestabili è perché giudica che il Settecento ancora sopravvive nelle dottrine militari del suo tempo.

    Ma questo secolo per lui è comunque morto e defunto con Napoleone. I suoi eserciti, le sue campagne, le sue vittorie folgoranti, le sue conquiste hanno aperto un altro tempo e un’altra dimensione della guerra: non più relativa a determinate a condizioni, ma assoluta, capace di determinare a suo modo le sue stesse condizioni. La politica nel nuovo secolo non potrà più trattarla a distanza, come un fatto esteriore, sarà obbligato a passarvi dentro. E il problema principale sarà di non subire una sorte tanto disastrosa come quella delle potenze europee di fronte alle novità belliche incarnate da Napoleone. Da un lato, le condizioni del loro emergere nel corso della Rivoluzione Francese, dall’altro, la loro catastrofica dissoluzione finale, come pure le nuove forme di resistenza armata suscitate specie tra le popolazioni spagnole e tirolesi sotto la dominazione francese: questi i fatti storici maggiori dai quali trarre insegnamenti. Ma per poterli trarre occorre appunto smetterla con la separazione tra politica e guerra come due “stati”; due stati in esteriorità reciproca, per cui la politica conta essenzialmente solo in stato di pace e non in stato di guerra.

    Ecco dunque che la tesi della guerra come continuazione della politica si pone in primo luogo come alternativa ad una visione del rapporto tra politica e guerra come visione di due stati differenti, l’uno all’altro esterni: normale, legale, il primo, eccezionale, di necessità, il secondo.

    A Clausewitz non interessa quindi neanche soffermarsi sui possibili rapporti tra questi due “stati”: su quali istituzioni o quali condizioni costituzionali sarebbero più o meno legittimate a garantire una guerra più o meno regolata.

    Tutti i numerosi commenti ( come quello di Rusconi ) che insistono sulle carenze del suo pensiero sotto questo profilo paiono poco incisivi. In effetti, egli, essendo estraneo a qualunque impostazione giuridica, non ha mai alcuna profonda preoccupazione di tipo costituzionale o costituente e meno che mai istituzionale. Così pure non convince il giudizio di alcuni suoi interpreti ( tra i quali Dalpane ) secondo i quali egli, non dimostrandosi spesso né un acceso liberale, né un riformatore convinto, sarebbe un politico conservatore.

    Più opportuno, mi pare, è vedere in Clausewitz anzitutto un ricercatore concentrato su una singolare dimensione del reale, così come è imposto dall’emergere ottocentesco della possibilità di una molteplicità di saperi tra loro indipendenti. Così come egli non ha mai pensato ad alcuna teoria generale della politica e dello Stato, tanto meno si è sentito di dover militare costantemente in determinati schieramenti d’opinione politica.

    La politica egli non la considera se non per quanto a che fare con le questioni belliche, e a partire dai dati che per lui più contano da questo punto di vista: le relazioni tra governi e popoli. Ed è il caso di sottolinearlo: al plurale, tra governi e popoli, di più governi e più popoli. E proprio per ciò egli difende il principio nazionale anche fuori del proprio paese, mentre insorge laddove lo si trascura, anche quando ciò avviene nel suo stesso paese, e combatte fino in fondo chi come Napoleone vuol realizzare un nuovo impero a scapito di ogni nazione.
    highlander non è in linea
  9. #9
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    La politica per Clausewitz non è affatto un affare comunque e solo di Stato. Come noto e come vedremo meglio in seguito, quando ritiene che lo Stato prussiano privilegi le relazioni diplomatiche ( nel caso concreto, quelle imposte da Napoleone) a danno di quelle col proprio popolo, arriva a teorizzare la possibilità che sia l’esercito da solo a promuoverne il riscatto; e non riuscendo in tale intento, arriva addirittura a porsi al servizio di una potenza nemica, la Russia, vista come ultimo baluardo all’espansionismo francese.

    La sua ottica oltre a non essere né tecnico-militare, né filosofica, né normativa, né costituzionalista, non si pone neanche come problema cruciale ciò che oggi si potrebbe chiamare la governabilità della guerra. L’intelligenza politica della guerra che egli prescrive assume certo i governi di Stati sovrani come sponda obbligatoria del proprio spazio problematico, ma l’altra sponda è quella più vaga e mutevole, eppur altrettanto necessaria, dei “popoli”.

    Non per questo, del resto, egli è da considerarsi un teorico della guerra di popolo ( come giustamente osservano tra gli altri gli stessi Rusconi e Dalpane). Tra il 1813 e il 1819 è certo tra i più convinti promotori della formazione in Prussia delle Landswehr, milizie popolari, ma è opportuno sottolineare come egli non vi abbia mai visto altro che un supporto all’esercito regolare, da addestrare soprattutto per in funzione difensiva. In ogni caso, resta assai significativo che in Vom Kriege la possibilità del concorso attivo delle popolazioni nella guerra ottiene un rilievo di prima grandezza. Se Clausewitz infatti arriva a teorizzare la superiorità strategica della difensiva (rispetto all’attacco, questo considerato tatticamente decisivo) è proprio in ragione del fatto che l’esercito che difende un territorio può contare sull’appoggio delle popolazioni residenti in tale territorio.

    “Governi” e “popoli” non sono dunque considerati che dal punto di vista della guerra, e, al tempo stesso, sono pensati come entrambi politicamente decisivi per la stessa guerra.

    Qui mi pare stia la sostanza di quel che Clausewitz chiama intelligenza politica della guerra.

    Alcuni commenti ( come quello di Dalpane) sostengono che i suoi destinatari siano solo dei vertici militari, ma a me pare un’interpretazione unilaterale, non di meno di quella propria di altro commento ( quello di Rusconi) secondo il quale i “cittadini” cui egli si rivolge sono in realtà solo i cittadini-sudditi prussiani del suo tempo. Così, infatti, si fa torto al carattere universale che la sua opera, con ampi e duraturi successi tra lettori più disparati, ha effettivamente dimostrato di possedere.

    L’intelligenza che Clausewitz promuove è un’intelligenza, di cui tutti, governanti, esperti e non, quindi “popolo”, possono dotarsi. Un’intelligenza dal campo di pertinenza assai limitato, che non si disperde in considerazioni sulla natura degli stati, delle popolazioni, delle loro leggi o dei loro costumi, e che, d’altra parte, non si rifugia nello specialismo, non si riduce a semplici istruzioni ad uso bellico, ma un’intelligenza operativa, d’analisi delle condizioni, delle probabilità e dei possibili risultati, per stare e intervenire in guerra.

    E’ in quest’ottica che si può sciogliere anche il nucleo incontestabilmente ermetico della massima “la guerra come continuazione della politica con altri mezzi”. Che significa infatti l’espressione “continuazione con altri mezzi”? Che la guerra è strumento della politica? Ma ciò non significherebbe avvallare una visione del tutto strumentale e tecnica della guerra? e quindi contraddire la constatazione fondamentale secondo cui essa con l’Ottocento ha acquisito una potenzialità assoluta? Non si dovrà allora intendere del tutto diversamente che tra politica e guerra la differenza è solo di mezzi? e che dunque l’essenziale sta in ciò che le accomuna e le muove entrambe?

    Tale in fondo è la soluzione posta da Schmitt con la sua teoria del politico fondato sull’opposizione bellica amico/nemico. Ma un simile esito sposta il pensiero del generale prussiano su un piano problematico, quello della crisi novecentesca della sovranità, ben diverso dal suo.

    Per cercare di cogliere questa massima nel senso del suo stesso autore occorre evitare di introdurre altri termini oltre a guerra e politica. Bisogna pensare che a Clausewitz fondamentalmente non interessa altro.

    E allora non resta che ammettere che il termine “continuazione” riassume, condensa due tipi di rapporti tra guerra e politica. Uno, in cui la guerra non è che una messa in pratica, un’esecuzione in termini militari di una determinata politica; e un altro, in cui è la guerra stessa che pone le sue condizioni alla politica.

    E’ in fondo quanto dicono gli stessi passi di Vom Kriege che trattano del rapporto tra “obiettivo militare” e “scopo politico”. Riassumo: mentre il primo consiste nel mettere il nemico nell’impossibilità di difendersi, nel piegarne la volontà politica, il secondo sta nell’abbatterlo, nell’annientarlo, diciamo fisicamente, nei suoi mezzi militari. Ora, quando la guerra si scatena, quando le ostilità giungono all’estremo, lo scopo politico viene “respinto fuori della guerra stessa”. La parola resta così alle armi finché i belligeranti non hanno alternativa tra l’annientare l’avversario o essere annientati da esso. Tale situazione estrema, non può comunque mai durare a lungo, in ragione dell’esaurirsi delle forze di uno o di entrambi i contendenti. E’ il momento in cui, dice Clausewitz, lo scopo politico “riappare”: o per porre le condizioni di pace o per prepararsi alla ripresa delle ostilità. In entrambi i casi, infatti, la volontà politica dei belligeranti torna a giocare un ruolo decisivo. Il movimento d’insieme che giunge alla repulsione e poi alla riapparizione dello scopo politico nel corso della guerra viene descritto col termine “rappresentazione”: l’obiettivo militare rappresenta lo scopo politico.

    Tutto avviene dunque come nella delega temporanea di un mandato che in seguito viene revocato.

    Ma nel frattempo, si dice, lo scopo politico può modificarsi “molto profondamente”.

    Diversamente da quanto può apparire da una lettura superficiale in Vom Kriege si sostiene dunque che lo scopo politico della guerra non può mai restare sempre lo stesso e deve diversificarsi in corso d’opera. Tutti i testi di questo libro costituiscono così una sorta di casistica generale delle circostanze belliche che rendono probabile questo o quello obiettivo militare in rapporto a diversi politici perseguiti.

    Ecco allora un altro significato cruciale della famosa massima: che l’intelligenza della guerra sta nella saperla rincorrere trovando obbiettivi politici adeguati al mutare delle sue condizioni. Il soggetto di tale rincorsa essendo di solito i governi e gli eserciti ad essi fedeli, ma anche chiunque del popolo in guerra arrivi a condizionare con le sorti della guerra anche le scelte dei governi.

    In fondo era proprio quello che era capitato allo stesso Clausewitz nel corso della straordinaria vicenda che nel 1812 lo aveva portato, allora col grado di maggiore, ad abbandonare il suo esercito e il suo paese per entrare addirittura tra le fila di un esercito nemico. Il fatto è che, ricordiamolo, la Prussia da anni sotto l’egemonia napoleonica si stava accingendo a sostenere anche militarmente l’invasione francese della Russia. Ora, la straordinarietà di questa ben nota vicenda sta soprattutto nella sua conclusione. Sul finire della ritirata francese, infatti, Clausewitz, nel frattempo divenuto tenente colonnello dell’esercito russo e del tutto attivo tra le sue fila, fino a combattere alla battaglia di Borodino, si fa inviare a parlamentare col generale York, comandante delle truppe fornite dalla Prussia a Napoleone. Dopo difficili trattative, quest’ultimo viene convinto a firmare la convenzione di Tauroggen in seguito alla quale le stesse truppe prussiane, ancora formalmente alleate della Francia si schierano con quelle russe. Ecco dunque che se la Prussia esce non solo indenne, ma addirittura vincente dal tracollo napoleonico, potendo in seguito partecipare al Congresso di Vienna, ciò in parte almeno è dovuto all’arrischiata e intelligente politica condotta, quasi in solitudine, dallo stesso Clausewitz, il quale per altro non fu mai osannato in patria per queste sue gesta.

    Egli comunque contribuisce così direttamente a rendere possibile la pace con cui la nascente configurazione molteplice, nazionale degli Stati europei chiude l’ultima avventura imperale, quella di Napoleone, il quale è certo ammirato dal generale prussiano come un vero e proprio “dio della guerra”, ma proprio per questo ritenuto politicamente disastroso.

    Bisogna quindi aggiungere che la politica per l’autore di Vom Kriege è anche il contrario esatto della guerra, in quanto suo scopo ultimo non può mai essere che la pace.

    Qui sta dunque un ulteriore e definitivo significato della massima secondo cui “la guerra continuazione della politica”: la guerra continua la politica fino a che la politica raggiunge il suo scopo ultimo, che non può non essere la pace.
    highlander non è in linea
  10. #10
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    Governi, popoli, eserciti più o meno regolari: queste le figure protagoniste dello

    scenario bellico quale appare nel primo Ottocento a Clausewitz. Già ben diversa è la figura che ha a capo colui che promuove quest’ultimo a mito dichiarandosene seguace ( come ben illustra Rusconi). Si tratta del feldmaresciallo von Moltke vincitore sull’Austria a Sadowa nel 1866 e Sedan nel 1870 contro la Francia: l’immagine stessa di quello che sarà noto come il militarismo prussiano-tedesco. Una sorta di partito dei militari, nella seconda dell’Ottocento, ben distinto, ad esempio, dal “partito” dei rivoluzionari, degli anarchici, dei socialisti comunque fautori della guerra sociale tra le classi. Capaci entrambe, queste figure, sia pur in diverso grado, di condizionare le sorti degli Stati nazioni nel frattempo strutturatisi con o contro la volontà delle monarchie.

    Nel Novecento la figura dei partiti ( unici, come quelli fascista, nazista e comunista, o invece al plurale come quelli democratico-parlamentari ) finisce per sovrastare e modellare quella dello Stato ovunque sempre più presente nell’economia e nel sociale. Il tutto nelle condizioni imposte dal succedersi nell’arco di trent’anni di due guerre su scala mondiale, seguite poi dalla terza “fredda”.

    Che nella notte più nera di questo secolo, i nazisti abbiano rivendicato alcuni brani di Vom Kriege per legittimare il “Blitzkrieg” dimostra solo che per loro l’intelligenza politica non serviva ad altro che ad esaltare fuori di ogni limite e misura ciechi obbiettivi militari. Così, si può forse dire, Clausewitz è stato rovesciato tanto violentemente da fargli perdere del tutto la testa.

    In ogni caso, in tutte le grandi manovre e immani catastrofi belliche che hanno rimodellato il mondo novecentesco non è facile riconoscere scopi politici accostabili a quelli che per il generale prussiano sono scopi politici. Il principio molteplice delle nazioni e delle relazioni plurali tra governi e popoli viene infatti spaccato da fronti mondiali inesorabilmente sempre più netti e sempre più ispirati da divisioni tra forme partitiche dello Stato (da ultimi, ad esempio quelli tra nazi-fascismo e aninazifascisti, e poi quello tra paesi libraldemocratici e paesi comunisti); inoltre, questi stessi fronti, una volta costituitisi su un piano bellico, paiono, essi stessi, giustificare qualsiasi scopo politico – ad esempio, dalla più completa ingerenza negli affari interni di uno Stato fino anche al colpo di Stato esternamente pilotato.

    Tutto il contrario dunque di quel che per Clausewitz era intelligenza politica.

    Per ritrovare un’attualità novecentesca della sua più famosa formula dovremo comunque accettare di rovesciarne il senso, come Schmitt o Foucault, ciascuno a suo modo, propongono?

    Certo è che si tratta di due modi alternativi per congedare il generale prussiano raccogliendone un’eredità in ogni caso assai modesta.

    Il primo non può andare che a profitto del “realismo politico”, l’altro dei movimenti in difesa del “sociale”. Due prospettive, queste, che dal Novecento si proiettano anche sul nostri tempi.

    L’opposizione tra amico e nemico se viene estesa su scala mondiale impone in effetti di chiedersi quale sia la potenza in grado di deciderla, ovvero in grado di esercitare una propria sovranità. Da essa, solamente, ci si dovrà quindi attendere il mantenimento del conflitto entro limiti non del tutto dispersivi e distruttivi.

    D’altre parte, una visione biopolitica del conflitto globale denuncerà come l’attuale esercizio della sovranità non è che l’ultima forma, tanto più ristretta, quanto più evidente, di compressione e sfruttamento della creatività della moltitudine sociale dei corpi e delle conoscenze ( ovvio qui è il riferimento al best seller dichiaratamente ispirato a Foucault, Impero di Hardt e Negri).

    Tuttavia, nello stesso Novecento si possono comunque sorprendere dei momenti, delle eccezioni rispetto all’imperio della guerra sulla politica. Dei momenti, delle punti eccezioni su quali, sia pur barcollante e a pezzi, Clausewitz può ancora ritornare in piedi.

    Solo qualche esempio, tra gli altri. L’esempio di quelle esperienze di guerre condotte da eserciti più o meno irregolari sul finire del secondo conflitto mondiale e aventi come scopo politico la formazione di governi nazionali in diretto rapporto con sollevazioni popolari contro invasioni straniere. Si potrebbe anche dire più semplicemente le “guerre di liberazione nazionale” ma preferisco evitare questo termine canonico, perché le ambiguità che esso comporta meriterebbero una discussione a parte. Più in particolare, penso alle esperienze della guerra partigiana in Italia e dell’armata rossa in Cina.

    Riferirsi ad esse per ridare credibilità all’insegnamento di Clausewitz può dare l’impressione di riproporne l’immagine di teorico della guerra di popolo. Un’immagine che qui è già stata respinta. In effetti, il termine “guerra di popolo” è anch’essa piena d’ambiguità per cui meno che mai è pertinente a quanto viene teorizzato nell’opera del generale prussiano.

    Ciò che qui pare decisivo in esperienze come quelle succitate, italiana e cinese, è il fatto che esse non siano state dirette da un partito avente a riferimento un modello di Stato, e più precisamente uno degli Stati già protagonisti del conflitto mondiale.

    Questa affermazione pare contraddire l’opinione, ampiamente diffusa e spesso scientificamente suffragata, secondo cui sia i partigiani italiani sia i soldati dell’armata rossa cinese facessero parte integrante del movimento comunista internazionale, avente a capo l’URSS e il Partito Comunista sovietico. Un’opinione, questa, per altro ampiamente compatibile con la teoria del partigiano di Schmitt. La continuità che egli stabilisce in ogni guerra di irregolari da Clausewitz agli anni Sessanta del Novecento funge infatti da sostegno alla sua idea cruciale di un’inimicizia assoluta che estendendosi sempre più su scala globale finisce per porre il già segnalato problema di una sovranità sovranazionale.

    Ben diversamente, la prospettiva che qui interessa vede nei partigiani italiani e nell’armata rossa cinese degli esempi in cui una guerra e una politica vengono condotte su un piano locale in modo tale da contraddire radicalmente le tendenze belliche e politiche dominanti sulla scena storica mondiale.

    Senza entrare in dettaglio, esiste tutta una serie di buone ragioni storiograficamente comprovate per sostenere che entrambe queste esperienze si sono costituite e sviluppate in modo del tutto originale, fuori di qualsiasi influenza esterna; e, più in particolare, fuori dell’influenza dell’Urss e del suo Partito, i quali d’altro canto sul finire della guerra ne hanno saputo trarre profitto per le loro strategie globali.

    Che esperienze come quelle dei partigiani italiani e dell’armata rossa cinese siano state essenzialmente autoctone è assunto qui importante almeno per tre ragioni. Perché ciò fa risaltare: che esse avevano un ben preciso scopo politico nazionale, di creare un governo nazionale; che questo scopo è stato possibile solo grazie al sostegno ottenuto dalle popolazioni; infine, che le loro forme organizzative erano essenzialmente militari, derivate dalla ricomposizione più o meno occasionale e rienventata di metodi e spezzoni di eserciti regolari.

    Come si può ben notare, si tratta di tre caratteristiche del tutto omogenee alla problematica di Clausewitz. Ecco allora che così, almeno per alcuni momenti del Novecento, si confermerebbe il suo insegnamento secondo il quale è la guerra ad essere la continuazione della politica, con altri mezzi. E non viceversa.

    A questo punto si potrebbe comunque contestare il peso storico di queste stesse esperienze, quanto esse abbiano davvero contato sui destini locali e globali della guerra e della politica nel Novecento. E si potrebbe anche concludere che esse poco o nulla sono servite a contrastare le divisioni di tipo bellico che hanno principalmente contato in questo secolo. Cosicché la loro stessa compatibilità con la problematica clausewitziana equivarrebbe a squalificarle come anacronistiche. Ma non è questa la conclusione cui voglio giungere, ritenendo invece che esse offrano ancora di attuale su cui pensare.

    Per far ciò è opportuno precisare almeno due punti per i quali l’impostazione di Vom Kirege risulta del tutto superata rispetto al Novecento.

    In primo luogo, si tratta del ruolo dei governi nel condurre la guerra. Come lo si è già notato, per lo sguardo di Clausewitz tutto lo scenario storico si riduce all’Europa; inoltre, protagonista è una pluralità di governi con poteri oramai limitati ad un quadro nazionale. Quasi inutile osservare che tutto ciò è radicalmente mutato con la mondializzazione novecentesca delle possibilità e della realtà della guerra.
    highlander non è in linea

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