Dal Quarantacinque non ci sono infatti che due governi, oltretutto entrambi alla testa di unioni di numerosi Stati, che possono imporre le loro decisioni belliche a tutti gli altri; e dall’Ottantanove, uno solo.
Il che significa che dopo il Novecento la stragrande maggioranza dei governi del globo non ha quasi potere di decidere alcuna guerra, a meno che, caso sempre più raro, essa si riduca ad un trascurabile caso di cronaca locale.
In secondo luogo, ad essere obsoleto è un ben determinato aspetto della stessa impostazione problematica di Clausewitz: il fatto che per lui, come per la cultura del suo tempo, la storia è comunque sempre sovrastata da un senso, una logica precisa. Gran parte dei discorsi di Vom Kriege sono infatti discorsi teleologici, finalistici: parlano della “cosa”, della guerra, chiedendosi sempre come andrà a finire, ed è proprio pensando come prima o poi finirà che si vede che solo la politica può porre questa fine. Guerra e pace sono quindi in dialettica tra loro: o c’è l’una o c’è l’altra, ma il reciproco condizionamento delle loro possibilità è continuo, in una continuità politica, perché il loro soggetto è sempre lo stesso: un governo, più governi, in rapporto coi loro popoli. Guerra e pace, dunque, come due facce delle stesse medaglie che girano sempre tra le mani dei governi. E’ tra l’altro proprio avendo questa idea teleologica della storia e della guerra che lo stesso Clausewitz approva il Congresso di Vienna e crede che il suo spirito di pacificazione valga anche il prezzo di brutali repressioni militari.
Ora, dopo il Novecento, direi che fa oramai parte del senso comune non solo non sapere, ma neanche chiedersi dove va la storia; a interessare è piuttosto l’andamento della “congiuntura”; né, come si è detto, la stragrande maggioranza dei governi può decidere della guerra; né, specie per combattere la figura del “terrorismo” recentemente quanto mai diffusasi, vi sono più precisi limiti e rapporti tra guerra e pace.
In un simile scenario spezzettato, che valore può dunque mantenere l’esempio ricordato di esperienze politiche localmente contrarie alle tendenze belliche globali? In effetti, i partigiani italiani e l’armata rossa cinese puntavano a creare governi nazionali, che poi sono riusciti a creare. Governi di pace, non del tutto schierati secondo il volere e gli accordi delle superpotenze belliche del tempo. Per quanto puntuali simili esperienze possono indurre ad un’ipotesi che confermerebbe una sia pur limitata ed obliqua attualità di Clausewitz : che anche nel Novecento siano state possibili eccezioni politiche di governi locali alle tendenze belliche generali.
Non propriamente in tema di guerra, ma di pace.
Il che obbligherebbe ad ammettere che l’inversione del primato della politica sulla guerra che ha sicuramente caratterizzato il secolo scorso, non ne ha comunque costituito una tendenza universalmente irreversibile.
Di qui anche un possibile auspicio per il secolo appena iniziato: che, se, quanto alla guerra, il potere decisionale della stragrande maggioranza dei governi nazionali è nullo o quasi, ciò non implica necessariamente lo stesso quanto alla pace.
Nelle dilanianti vicende dell’ex-Jugoslavia e della Palestina, ad esempio, non sono mancati e non mancano infatti gli episodi che ci parlano della possibilità che la pace sia perseguita su scala locale pur nell’imperversare di una guerra, la quale, come sempre più accade, risponde a scelte e a ragioni di carattere del tutto globale