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Discussione: I DISCHI STORICI
  1. #31
     Maresciallo
     
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    Re: I DISCHI STORICI

    Quote roberto77mds ha scritto:
    brava! ottimo disco. Due sono le mie canzoni preferite: I'm Waiting for the Man cantata da Reed e la magica Femme Fatale cantata da Nico.... da brividi.....
    Su tutte Heroin e Black Angel's Death Song, per me.

    Riguardo i King Crimson: ascolta anche Larks' Tongues In Aspic. Ammiro i KC soprattutto per la capacità che hanno avuto di reinventarsi completamente ogni tot di anni (seguendo il suo dispotico leader RObert Fripp), mantenendo però sempre un approccio artistico, mai retorico, alla musica.


    Detto ciò, vi propongo un album a mio avviso mai abbastanza elogiato, che rappresenta il vertice di un intero genere (il Trip-Hop) e l'esordio del gruppo tra i maggiormente imitati e allo stesso tempo dei meno imitabili degli ultimi venti anni (siamo ai limiti del genere rock, ma me lo perdonerete):






    Autore: PORTISHEAD
    Titolo: Dummy
    Anno: 1994
    Genere: trip-hop
    Etichetta: Go-Disc


    Dal laboratorio inglese di Bristol - fucina di uno dei movimenti più interessanti degli anni Novanta, il trip-hop - sono uscite molte accattivanti alchimie (da "Maxinquaye" di Tricky al trittico "Blue Lines"-"Protection"-"Mezzanine" dei Massive Attack). Solo una, però, è riuscita a fissare in modo perfetto e definitivo l'"essenza" del genere. Trattasi, per l'appunto, di "Dummy", disco d'esordio dei Portishead (dal nome del paese in cui Geoff Barrow, mente della band, trascorse la giovinezza).

    Griffato in copertina dalla tipica "P" formato gigante che caratterizzerà tutte le produzioni della band (ovvero un altro buon disco, "Portishead", e l'ottimo "Live in Roseland, New York"), "Dummy" è una sorta di "classico moderno". Un disco senza tempo, forse proprio perché sempre in bilico tra passato e futuro. Come un film in bianco e nero, girato con le tecniche più avanzate di fine Millennio.

    Mai forse come in questo caso, l'uso del termine "cinematico" si adatta a definire un sound che fa dell'ideale connubio suoni-immagini la sua chiave di volta. Può fare da sottofondo a un viaggio notturno o a un incontro d'amore. Può animare le sequenze di una spy-story o di un thriller di Lynch (do you remember "Twin Peaks"?). Ma può essere anche la colonna sonora di un film di fantascienza post-atomico, per lo spirito lugubre e decadente che lo pervade. D'altra parte, gli stessi Portishead hanno voluto mettersi alla prova dietro la macchina da presa, realizzando il cortometraggio "To Kill A Dead Man".

    L'idea-cardine di Barrow e compagni è la rielaborazione di vecchi motivi di film noir e di spionaggio, mescolati a spunti jazzy-lounge e ritmi hip-hop rallentati, e immersi in atmosfere desolatamente romantiche. Per il resto, l'architrave sonora di "Dummy" è quella tipica di tanto trip-hop a venire: massiccio utilizzo di sample e scratch (i suoni ottenuti strofinando la puntina sul vinile dei vecchi 33 giri o dischi mix), giri di chitarra presi in prestito dagli spaghetti-western anni 60, ampie sezioni di archi, bassi cupi, sintetizzatori "moog" e un organo hammond ad aggiungere un ulteriore tocco "vintage". Ma su questo impasto di suoni svetta il canto dolente e spettrale di Beth Gibbons, ribattezzata audacemente "la Billie Holiday venuta dallo spazio" (e autrice nel 2002 di quello splendido debutto solista dal nome di "Out Of Season"). La sua voce è capace di improvvise escursioni di registro: può essere tesa, metallica, straziante; ma anche calda e sensuale, come nel lento "Glory Box", dolente dissertazione sulle tribolazioni delle donne, o nell'iniziale "Mysterons", che parte con un piglio da bolero e finisce avvolta tra le spire di sonorità sempre più suadenti, tra strimpelli di chitarre e soffici tappeti di tastiere. Il climax emotivo dell'intera raccolta è però il singolo "Sour Times", sorta di "atto di contrizione" dall'incedere mesto e dalla melodia sontuosa, con una Gibbons disperatissima che grida al vento "'Cause nobody loves me/ It's true/ Not like you do...", sulle note di un'orchestra spettrale. Un pezzo memorabile, che sarà finanche migliorato nella straziante interpretazione dal vivo di "Live in Roseland, New York".

    L'impronta jazz, portata in dote dall'eclettico Adrian Utley, appare più evidente in tracce come "Strangers" e "Pedestal"; la prima, in particolare, svela anche l'opera certosina compiuta in studio dai Portishead, con il suo susseguirsi di raffinate digressioni sonore - dal soul alla bossa nova - e variazioni di ritmo (con tanto di "stop&go" sincronizzati col canto di Gibbons). "Roads" abbina i gemiti delle chitarre a un'orchestrazione retrò, sospinta da archi solenni: l'effetto è di grande suggestione, come a voler introdurre il colpo di scena in un ideale film.

    Il lato più tenero della band si esalta nella malinconica "It Could Be Sweet", in cui il soprano di Gibbons riesce a gonfiare d'emozione quasi ogni sillaba della strofa "Try a little harder...". Propulso da ritmi ossessivi - anche mediante l'uso di un tamburo africano - "Numb" è un altro numero d'alta scuola della vocalist, che riesce a fluttuare sapientemente tra le note con vocalizzi a` la Sade. E' invece una raffinata chanteuse da cabaret quella che si cala nel lied incalzante di "Wandering Star", avvolta in una coltre di sibili elettronici e di scratch, con il solito basso dub a reggere il gioco.

    "Pedestal" e "Biscuit" danno voce ai fantasmi di quell'ansia latente che è un altro marchio di fabbrica della ditta Portishead, conducendo l'ascoltatore lungo un cunicolo di oscuri meandri sonori, costruiti su una struttura ipnotica e ossessiva. "Biscuit", in particolare, accentua la componente ritmica del sound, scatenando una tempesta di beat sincopati e pulsazioni hip-hop, con le folate gelide delle tastiere sullo sfondo. Forse solo "It's A Fire", con la voce di Gibbons che miagola un po' troppo su un accompagnamento d'organo, abbassa per un attimo la qualità di un disco praticamente perfetto.

    "Dummy" è sì il manifesto definitivo della rivoluzione trip-hop – paragonabile per importanza a quella parallela della techno - ma anche l'opera che più di ogni altra travalica i confini di quel genere, per approdare nei territori di una musica tanto retrò (nell'animo) quanto moderna (nell'approccio). L'opera dei Portishead affonda le radici nella mestizia del blues e nelle confessioni a cuore aperto del soul; assorbe l'angoscia della dark-wave, la rabbia dell'hip-hop e l'ossessività della techno. E riesce a rivestirle in ballate di rarefatta eleganza, grazie anche a un gusto orchestrale mai sopra le righe. Chi vede lungo i solchi di "Dummy" nient'altro che semplici "canzoni", magari arrangiate in modo ammiccante e "alla moda", fa un torto, prima ancora che ai Portishead, ai loro veri padri putativi: Ennio Morricone, John Barry e Angelo Badalamenti.

    Recensione di Claudio Fabretti
    In fede,
    Kofi Annan

    Segretario Generale del CastelliRisiko!Club



  2. #32
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    Re: I DISCHI STORICI

    Quote maat ha scritto:
    ...non lo sono...
    conosco poco la musica...faccio fatica a ricordarmi i nomi dei gruppi...



    ma quando mai??? :ahahah:
    Paolo Valdisserri - Club Grifone Venezia
    What? "Over"? Did you say "over"? Nothing's over until we decide it is! Was it over when the Germans bombed Pearl Harbor? Hell, no! And it ain't over now. 'Cause when the going gets tough... the tough get going! (John Blutarsky)

    ... addà passà a nuttat ...
  3. #33
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    Re: I DISCHI STORICI

    Quote roberto77mds ha scritto:
    inauguro questa "rubrica" introducendo il mio disco preferito:

    JETHRO TULL



    AQUALUNG
    RECENSIONE
    I Jethro Tull furono una delle più originali formazioni inglesi negli anni Settanta. La loro attività prosegue a tutt’oggi, ma probabilmente il loro capolavoro rimane il quarto disco, pubblicato nel 1971. La copertina, fra le più famose e riconoscibili della storia del rock, se non fra le più belle, ritrae un clochard con le fattezze del leader Ian Anderson, flautista e cantante. "Aqualung", nome del disco, della prima traccia e del personaggio in copertina, significa "autorespiratore". Il titolo venne deciso pensando al rumore sibilante che, nella fantasia di Anderson, il barbone emetteva a ogni respiro.

    La somiglianza di Aqualung con il suo principale artefice, Anderson, fece pensare che si trattasse di un concept album a sfondo autobiografico, ma così non è. Il leader dei Jethro Tull si affrettò a precisare che "lui non era mai stato un accattone" e che la somiglianza con le sue fattezze fu più che altro una trovata estemporanea. In effetti, le liriche del disco affrontano vari temi, con due centri tematici fondamentali nella condizione degli emarginati e, soprattutto sul secondo lato, nel rapporto uomo-religione.

    La mistura esplosiva di hard-rock, folk britannico, strumenti di tradizione classica e la tendenza a una peculiare deformazione ritmica della forma-canzone, fanno di "Aqualung" il disco musicalmente più vario ed equilibrato della produzione della band, in qualche modo vicina ai Traffic di Steve Windwood, ma con sonorità più tese verso la distorsione elettrica ed uno spiccato gusto per il "riff" più che per l’improvvisazione. Proprio la libertà nell’utilizzo di ritmi "squadrati" e irregolari è uno degli aspetti più interessanti della prima produzione dei Jethro Tull, in questo vicina al prog-rock ma ancora libera dalla ambiziosa sovrastrutturazione che li accomunerà a tante formazione storiche del progressive , e che raggiungerà forse il suo apice in "A Passion Play" del 1973. L’introduzione di ritmi inusuali nella struttura chiusa della rock song e del blues (cosa peraltro già ampiamente sperimentata dai Chicago nel loro "Chicago Transit Authority" del 1969) anziché nella struttura aperta della "suite" (come tipico dei Soft Machine o dei King Crimson, e di tutto il progressive-rock inglese) giova immensamente alla freschezza del sound dei primi dischi dei Jethro Tull.

    Si inizia con il celeberrimo riff distorto della title-track, scandito da attimi di geniale silenzio. "Aqualung" prosegue sorretta dalla voce stentorea e nasale di Anderson, capace di notevoli cambi di registro, e magistrale nell’equilibrare la melodia della chitarra con glissando e improvvise ruvidezze, mentre dipinge lo squallido quadretto urbano, con Aqualung seduto da solo nel parco: "Sitting on a park bench, eyeing little girls with bad intent". Il repentino dimezzamento del tempo a metà canzone introduce la vena acustica del gruppo, e aggiunge in effetto drammatico. Si prosegue con "Cross-eyed Mary", storia di una "prostituta Robin Hood" che si intrattiene con uomini facoltosi per poi dare soldi ai poveri. Introdotto da una marcetta in crescendo con flauto e tastiere, l’hard rock dei Jethro Tull si appoggia sul duetto chitarra distorta pianoforte che è uno dei tratti più distintivi del loro sound. Il riff celeberrimo del ritornello, doppiato dal basso, trascinante e swingato, renderà il brano uno dei più acclamati nelle esibizioni dal vivo.

    Le tre tracce successive, "Cheap Day Return", "Mother Goose" e "Wondering Aloud", costituiscono un trittico acustico di rara finezza: la prima è una toccante riflessione di Anderson su "come l’infermiera starà mai trattando il vecchio padre infermo", di fatto un pezzo-solo per chitarra acustica, arricchito dal canto quasi recitato e da qualche delicato spunto di flauto in sottofondo. In "Mother Goose" lo stesso Aqualung prende la parola per raccontare uno stralcio di giornata, fra minacce, rimpianti e vecchi amici. La chitarra acustica è padrona della scena, disegna una ritmica in 3 e 5/4 con divagazioni soliste ad avvolgere il canto dimesso di Anderson. Il flauto onnipresente arricchisce gli intermezzi. "Wond'ring Aloud" descrive una scena di coppia in toni sempre più malinconici, la voce è quasi un sussurro, la chitarra acustica sembra distante, suonata con leggerezza; violini e pianoforte arricchiscono con discrezione il quadretto.

    "Up to Me" innalza di nuovo la tensione e ci trasporta in un’atmosfera da medioevo inglese, ma il testo è un ritratto proletario, tutto ironica malinconia. Il refrain strumentale per flauto e chitarre è emblematico, e il brano è forse il più breve riassunto possibile della musica dei Jethro Tull fino al 1971.

    Il secondo lato si apre con "My God", che probabilmente costituisce la più alta vetta artistica di Anderson: un brano di sferzante satira sul tema della religione come elemento di controllo sociale. Si tratta di una mini-suite di sette minuti con introduzione acustica, tema hard rock per pianoforte e chitarra, intermezzo per flauto solo e voci corali, refrain strumentale con solo di flauto e ritorno al tema principale. Il tutto strutturato su una varietà impressionante di pattern ritmici (quasi tutti dispari, ma che sommati l’uno all’altro conducono a multipli di quattro), e con una costante atmosfera da epica di strada. La forte polemica anti-clericale e anti-religiosa del brano si fa evidente in versi come "People what have you done;\ locked Him in His golden cage.\ Made Him bend to your religion \ Him resurrected from the grave". Inizialmente anche l’album doveva chiamarsi "My God", ma il titolo dovette essere cambiato perché già circolava un bootleg live intitolato allo stesso modo: in effetti I Jethro Tull eseguivano la suite dal vivo già da tempo. La sezione centrale per voci corali e flauto ricorda da vicino l’atmosfera dei "Carmina Burana" (componimenti goliardici in latino risalenti al dodicesimo secolo, musicati nel 1937 da Carl Orff) magari arricchiti da numerosi bicchieri di birra. Il risultato è una "musica da taverna nella Canterbury medievale", che ben si armonizza con le altre vene compositive e tematiche del brano – l’epica hard rock, la satira di costume, l’atteggiarsi del leader a girovago menestrello. Il brano segna in realtà un punto di arrivo e un punto di partenza nella vicenda musicale della band: da una parte si è raggiunto il miglior equilibrio possibile delle molteplici suggestioni sonore che da sempre caratterizzano il sound dei Jethro Tull; dall’altro si è creato un precedente per le tendenze di Anderson alla diversificazione delle melodie, alla complicazione degli arrangiamenti e alla moltiplicazione delle strutture. Queste tendenze progressive segneranno in modo decisivo i dischi immediatamente successivi, a partire da "Thick as a Brick", fino a "A Passion Play" e "Minstrel in the Gallery".

    Il successivo brano si intitola "Hymn 43", e prosegue con la satira contro la religione e le sue strumentalizzazioni. È un semplice rock-blues di impianto tradizionale, ma la sua collocazione dopo i sette minuti di "My God" serve a stemperare la tensione. Lo si potrebbe quasi considerare come una "coda" al pezzo precedente, di cui tra l’altro riprende i temi, un semplice inno finale a chiudere una rappresentazione teatrale. La successiva "Slipstream" è un brevissimo quanto affascinante brano per chitarra acustica e voce sul tema della morte, arricchito da un lieve intervento di violini.

    "Locomotive Breath", vero e proprio must delle esibizioni dal vivo, riassume in sé tutta la vena hard-rock dei Jethro Tull , ripetendo tutte le idiosincrasie di Anderson riguardo al genere: introduzione di flauto, riff sincopato, ritmo di marcia, arresti improvvisi della batteria, canto istrionico e nasale.

    L’album si chiude con "Wind Up", ballata per pianoforte e voce, con sezione centrale in "ensemble". La voce narrante ricorda l’infanzia e riporta in primo piano tutti i nuclei tematici del disco: la condizione dei "falliti", la religione come strumento di potere, le ipocrisie della piccola borghesia inglese e, infine, la fede come fatto intimo ed esclusivamente personale, non assoggettabile alle regole del sistema millenario delle Chiese, che arrivano a dire quando e dove sia meglio pregare: "He’s not the kind you have to wind up on Sundays" ovvero, traducendo un po’ liberamente: "Non è il caso disturbarlo di Domenica". La chiusura è affidata proprio a questa frase, su accompagnamento di pianoforte.

    La parabola dei Jethro Tull non è ancora conclusa, e sebbene i loro lavori più recenti non possano competere con i dischi degli anni 70, sono certamente fra le band meglio invecchiate nella storia del rock. Le esibizioni dal vivo del Jethro Tull sono tuttora di grande spessore e ripropongono sempre una nutrita selezione di pezzi da "Aqualung".

    (da www.ondarock.it - Giovanni Agnes)

    GIUDIZIO PERSONALE
    l'ho ascoltato mille volte e ancora mi fa venire i brividi quando lo sento. Ci sono 3 o 4 canzoni famose, ma bisogna sentirlo tutto per apprezzarlo. La sequenza è geniale perchè ci sono pezzi tosti a cui seguono intermezzi acustici per tranquillizzare un pò.... poi si riparte con la chitarra. Diciamo che questo è il disco più hard rock di questo gruppo che è invece storicamente collocato nel prog rock; più che altro per l'utilizzo di diversi strumenti (flauto in primis) e per la varietà di generi (blues, folk, classicismi....) che sfiorano nelle loro composizioni.

    saluti

    roberto77mds
    Non so se rende, ma almeno per chi non li conosce da l'idea.



    http://intervos.com/archive/midi/JTull/Aqualung.mid

  4. #34
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    Re: I DISCHI STORICI

    Quote maat ha scritto:
    uno dei primi ascoltati.....
    uno dei primi amati....
    la colonna sonora della mia vita...

    VELVET UNDERGROUND
    Velvet Underground & Nico (Polydor, 1967)

    ..un viaggio nella notte tra pusher,put.tane e sbandati al suono di dolci nenie perverse e deraglianti cavalcate metalliche

    ...fra tutte le canzoni scelgo Venus in Furs....
    ..avvolgente mantra cosmico proiettante densa luce nera..
    ...nelle note di questa canzone sono racchiusi inferno e paradiso, amore e odio, sole e luna...cielo e terra....

    ...l'ingresso in un mondo complesso...come è complesso il mondo descritto nell'omonmo libro di leopold sacher masoch dal quale la canzone prende il nome.





    Un grazie va alla persona che mi ha guidato nel mondo complesso della musica....Anche se non leggerà mai questo post...
    Grazie a voi li sto' ascoltando tutti.

    Monica il tuo' e' questo.

    http://www.irevan.com/pam/blkvelvet.mid

    Grazie.

    Ciao
  5. #35
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    Re: I DISCHI STORICI

    Quote maat ha scritto:
    ...colpo basso tenente DefinisciTi....



    Mi tolga una curiosità...che differenza c'è secondo Lei tra Armonia Cosmica e ordine Universale???

    .....supponendo l'esistenza di un PadrEterno fatto a nostra immagine e somiglianza, avremmo che:
    .....l'Ordine Universale appagherebbe semplicemente la sua Coscienza, mentre l'Armonia Cosmica ne gratificherebbe la Vista ed il Cuore.
    .....sostanzialmente laddove c'è Ordine non necessariamente è detto che vi si trovi anche Armonia
    Danilo Orsini, Roma (quartiere S.Paolo)
  6. #36
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    Re: I DISCHI STORICI

    Oggi vorrei segnalare un'artista che, stranamente, da quando frequento questo forum non ho mai sentito nominare, FRANK ZAPPA.






    Zappa può piacere o non piacere, ma è indubbio che nel suo caso siamo in presenza del GENIO PURO.

    Anarchico, irriverente, iconoclasta, è stato un'artista che non è mai sceso a compromessi, impossibile da collocare in una corrente o un genere ben preciso, raro esempio di artista libero ed indipendente.

    Dalla discografia sterminata, si è sempre contraddisto per la cura maniacale della scrittura musicale, la scelta dei musicisti e dell'esecuzione "live".

    Ho avuto la fortuna di vedere un suo concerto nel lontano 1984/85, un' esperienza indimenticabile!

    Per me Zappa sta al rock come Mozart sta alla musica classica!


    Ecco il disco:





    FRANK ZAPPA
    Hot Rats
    1969




    Egocentrico, anarchico, folle, bizzarro, geniale: Frank Zappa e' questo e molto di piu'. Un personaggio sempre sopra le righe, un artista che non si e' mai piegato al "sistema", e che fino a quando la morte non lo ha portato via, ha avuto il coraggio e la sfrontatezza di sputare tutto il suo essere su di una societa' troppo borghese e perbenista per poterlo comprendere.

    Dopo una lunga carriera contraddistinta da una moltitudine di cambiamenti, nessuno con precisione potra' dire o sapere quale fosse il vero volto artistico di Frank Zappa: l'ironia e il suo essere sardonico lo hanno contraddistinto come autore singolare, amabile o disprezzabile in ugual misura. Musicalmente ha spaziato per tutti i generi musicali esistenti, riuscendo proprio in questo contesto a creare un sound tipicamente "zappiano" che ha fatto scuola. Lo sfavillante album d'esordio "Freak Out!" lo catapulto' come una bomba ad orologeria nel mondo del rock. Era il 1966 e Zappa era l'imperatore del mondo freak. Le "stupid songs", definite cosi' da lui stesso, non sono altro che mezzi attraverso le quali riempire di stilettate velenose tutto il bigottismo imperante e l'ipocrisia di una cultura, canzoni "stupide" per trasformare politici in buffe e grottesche caricature da fumetto; canzoni "stupide", volutamente superficiali nei temi e nelle liriche, proprio per dar forza ancora e di piu' all'incedere storpiato e ridicolo di quei personaggi di cui Zappa amava tanto prendersi gioco.

    Le Mothers Of Invention sono i degni sudditi di Zappa nel primo periodo, fulgido e geniale, della sua carriera: lo aiutano a trascrivere in musica i propri sberleffi, con trame musicali complesse e colorate di infinite sfumature. Quindi, nel 1969, Zappa rimescola la sua formazione e dà vita agli Hot Rats, mettendo insieme Captain Beefheart, i violinisti Ponty e Don "Sugar Cane" Harris, Underwood, e un'imponente sezione ritmica.



    L'omonimo album "Hot Rats" inizia in modo fantasmagorico con "Peaches En Regalia", una piccola suite, splendida negli arrangiamenti e nell'orchestrazione. E' un intreccio di trame in cui i fiati, le tastiere, la chitarra e il pianoforte duettano reciprocamente, creando a loro personalissimo modo un impasto sonoro dalle molteplici personalita', che riescono a interagire con coerente armonia. Sublime sinfonismo in un brano senza eta', dunque, che anche a distanza di anni riesce a resistere all'usura del tempo, mantenendo inalterato il proprio avvolgente fascino.

    Alla vena sardonica di Captain Beefheart, antico amico/nemico di Zappa, è affidata "Willie The Pimp", l'unica canzone ad avere una piccola ma significativa partitura scritta. E' un cantato gutturale e graffiante al tempo stesso, quasi da Orco, che ci accompagna nel cuore stesso della canzone; un totale trip chitarristico in versione sperimentale. Il Frank Zappa chitarrista si avventura in un terreno minato per complessita' di melodie e di esecuzione, disegna la melodia base, per poi allontanarsi da questa in completa improvvisazione. Sono parti chitarristiche, in cui viene privilegiata l'effettistica - la distorsione, il wah wah - il ritmo, poi, e' incalzante e non da' tregua al primattore: sembra quasi che da un momento all'altro Zappa stia per collassare, quando invece riesce a riprendere la melodia di base in maniera imperiosa, una melodia originale che e' coadiuvata dal violino supremo di "Sugar Cane" Harris. Menzioni speciali anche per la "macchina" ritmica, affidata al basso di Max Bennett, e per le percussioni di John Guerin, ambedue ottimi nel macinare tempi con potente precisione al punto da rendere il brano incandescentemente trascinante.

    "Son Of Mr. Green Genes" parte con un'imperiosa introduzione, affidata alle tastiere e ai fiati, grazie ai quali gli Hot Rats riescono a disegnare raffinati ceselli barocchi, proiettandoci in un mondo lontano e irraggiungibile; la melodia viene ripetuta a rotazione per qualche minuto fino a che improvvisamente avviene il primo di molteplici stacchi, che ci catapulta in un crescendo di tensione: un clima totalmente diverso da quello in cui la canzone si era presentata all'origine. La particolarita' di questo stacco e' che introduce una "entrata" chitarristica tra le piu' spettacolari di tutta la musica moderna: i primo 30 secondi sono da antologia, e ci presentano uno Zappa coinvolto e incisivo, che riesce a dare un'anima al suono del proprio strumento e lo stravolge in maniera celestiale, creando uno stupefacente connubio in perfetta simbiosi fra brutalita' e armonia. Il brano cambia umore a ripetizione, reinventandosi repentinamente sotto molteplici vesti; e' una jam in studio, e la parte centrale di questa e' pure teatro di un favoloso inserimento a base di sax contappuntato ad opera di Ian Underwood, che riesce prima a sorreggere la melodia principale, con accordi ripetuti e incalzanti, poi a duellare con la chitarra estrema di Zappa. Sax e chitarra elettrica all'unisono: raramente nel rock tale singolare connubio ha raggiunto vertici cosi' elevati.

    "Little Umbrellas", invece, conduce verso atmosfere piu' marcatamente jazzate, in cui la parte principale e' appannaggio di un lavoro di "rilegatura" fra i vari strumenti ad opera di tastiere a organo, che creano una sonorita' sinistra, quasi da marcia funebre. Importante e fondamentale e' poi il ricamo melodico di certi strumenti a fiato, come il flauto, ad esempio, che timidamente, ma con garbo, spunta fuori fra le pieghe del brano stesso.

    Si prosegue con "The Gumbo Variations": il pulsante riff bassistico introduttivo di Max Bennett fa da preludio all'arrivo di un sax avventuroso, ai confini della piu' totale rottura di suono. Underwood e' magistrale in questo suo solismo in pura chiave jazz: e' un esercizio di stile senza confini e barriere. Il brano prosegue supportato da una ritmica traboccante di tempi dispari, e Zappa in sottofondo si produce in un lavoro oscuro d'impostazione ritmica, fino a che, in una totale esplosione orgiastica di suoni, prende il sopravvento il violino di "Sugar Cane" Harris, che si produce in un solo allucinato e geniale, riuscendo a strappare dal cuore del proprio strumento sibili e suoni mai uditi prima da un violino. Il violino cede il passo al solismo ruvido di Zappa e a quello tecnico di Paul Humphrey, per poi concludere il tutto in una esplosione d'avaguardismo jazzato fra i piu' esasperati. Il jazz levigato e morbido non abita qui. Qui regna la vena piu' ulcerosa e torrida, che vola oltre tutti gli schemi, spaziando in lungo e in largo verso maratone improvvisative-sperimentali.

    Il clima si fa piu' rilassato nella conclusiva "It Must Be A Camel": i rutilanti tempi dispari delle percussioni creano i presupposti per un canto corale fra il sax e il piano in sottofondo. La brutalita' che ha contraddistinto episodi importanti dell'album lascia il passo a un raffinato suono d'insieme, dominato a meta' brano da un solismo di Zappa che si distende verso sonorita' piu' pacate, salvo poi sorprenderci in esplosioni elettriche fulminanti e repentine.
  7. #37
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    Re: I DISCHI STORICI

    Quote paolovaldo ha scritto:
    Oggi vorrei segnalare un'artista che, stranamente, da quando frequento questo forum non ho mai sentito nominare, FRANK ZAPPA.


    Frank chi??????




    ok ok lo so off topic....ma oggi va così
    - Stai maturando come l'armagnac
    - L'armagnac più invecchia e più è buono

    - Appunto

  8. #38
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    8.8

    Re: I DISCHI STORICI

    Quote paolovaldo ha scritto:
    Anarchico, irriverente, iconoclasta, è stato un'artista che non è mai sceso a compromessi, impossibile da collocare in una corrente o un genere ben preciso, raro esempio di artista libero ed indipendente.

    Dalla discografia sterminata, si è sempre contraddisto per la cura maniacale della scrittura musicale, la scelta dei musicisti e dell'esecuzione "live".
    Il mio giudizio su Zappa è ancora "sospeso". I motivi principali li hai segnalati tu (e li ho sottolineati nella citazione). La sua difficoltà a collocarlo e la sua discografia immensa (ed eterogerea) lo rende un'atrista difficile da conoscere e da divulgare. L'ascoltatore "pigro" preferisce sicuramente avere un'idea di che cosa si trova ad ascoltare quando mette su un disco. Per Zappa questo non è possibile.

    Anche la critica specializzata è divisa, per esempio sull'originalità della sua musica. C'è chi dice che ha fatto cose uniche e chi invece sostiene che ha semplicemente preso la musica che andava di moda e ci ha fatto un frullato.

    La scelta del disco proposto è invece a mio avviso azzeccatissima, in quanto Hot Rats è uno dei suoi dischi più misurati e "gratificante" anche al primo ascolto. Ottime le composizioni, l'aspetto tecnico e quello realizzativo. Probabilmente il migliore disco che ha fatto, sicuramente il più abbordabile per chi non lo conosce.

    saluti

    roberto77mds
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  9. #39
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    Re: I DISCHI STORICI

    Quote il classificatore ha scritto:
    Il mio giudizio su Zappa è ancora "sospeso". I motivi principali li hai segnalati tu (e li ho sottolineati nella citazione). La sua difficoltà a collocarlo e la sua discografia immensa (ed eterogerea) lo rende un'atrista difficile da conoscere e da divulgare.
    azzzz.... siamo tutti preoccupati
    Sparuto minoritario e minimod
    non sono più quello di una volta... soltanto la retorica è rimasta la stessa
  10. #40
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    Re: I DISCHI STORICI

    Quote jord65 ha scritto:
    azzzz.... siamo tutti preoccupati
    oggi mi sento buono e non it insulto

    in questo modo evito anche di spammare in una delle poche discussioni serie di questo forum.

    saluti

    roberto77mds

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