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Discussione: I DISCHI STORICI
  1. #1
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    8.8

    I DISCHI STORICI

    inauguro questa "rubrica" introducendo il mio disco preferito:

    JETHRO TULL



    AQUALUNG
    RECENSIONE
    I Jethro Tull furono una delle più originali formazioni inglesi negli anni Settanta. La loro attività prosegue a tutt’oggi, ma probabilmente il loro capolavoro rimane il quarto disco, pubblicato nel 1971. La copertina, fra le più famose e riconoscibili della storia del rock, se non fra le più belle, ritrae un clochard con le fattezze del leader Ian Anderson, flautista e cantante. "Aqualung", nome del disco, della prima traccia e del personaggio in copertina, significa "autorespiratore". Il titolo venne deciso pensando al rumore sibilante che, nella fantasia di Anderson, il barbone emetteva a ogni respiro.

    La somiglianza di Aqualung con il suo principale artefice, Anderson, fece pensare che si trattasse di un concept album a sfondo autobiografico, ma così non è. Il leader dei Jethro Tull si affrettò a precisare che "lui non era mai stato un accattone" e che la somiglianza con le sue fattezze fu più che altro una trovata estemporanea. In effetti, le liriche del disco affrontano vari temi, con due centri tematici fondamentali nella condizione degli emarginati e, soprattutto sul secondo lato, nel rapporto uomo-religione.

    La mistura esplosiva di hard-rock, folk britannico, strumenti di tradizione classica e la tendenza a una peculiare deformazione ritmica della forma-canzone, fanno di "Aqualung" il disco musicalmente più vario ed equilibrato della produzione della band, in qualche modo vicina ai Traffic di Steve Windwood, ma con sonorità più tese verso la distorsione elettrica ed uno spiccato gusto per il "riff" più che per l’improvvisazione. Proprio la libertà nell’utilizzo di ritmi "squadrati" e irregolari è uno degli aspetti più interessanti della prima produzione dei Jethro Tull, in questo vicina al prog-rock ma ancora libera dalla ambiziosa sovrastrutturazione che li accomunerà a tante formazione storiche del progressive , e che raggiungerà forse il suo apice in "A Passion Play" del 1973. L’introduzione di ritmi inusuali nella struttura chiusa della rock song e del blues (cosa peraltro già ampiamente sperimentata dai Chicago nel loro "Chicago Transit Authority" del 1969) anziché nella struttura aperta della "suite" (come tipico dei Soft Machine o dei King Crimson, e di tutto il progressive-rock inglese) giova immensamente alla freschezza del sound dei primi dischi dei Jethro Tull.

    Si inizia con il celeberrimo riff distorto della title-track, scandito da attimi di geniale silenzio. "Aqualung" prosegue sorretta dalla voce stentorea e nasale di Anderson, capace di notevoli cambi di registro, e magistrale nell’equilibrare la melodia della chitarra con glissando e improvvise ruvidezze, mentre dipinge lo squallido quadretto urbano, con Aqualung seduto da solo nel parco: "Sitting on a park bench, eyeing little girls with bad intent". Il repentino dimezzamento del tempo a metà canzone introduce la vena acustica del gruppo, e aggiunge in effetto drammatico. Si prosegue con "Cross-eyed Mary", storia di una "prostituta Robin Hood" che si intrattiene con uomini facoltosi per poi dare soldi ai poveri. Introdotto da una marcetta in crescendo con flauto e tastiere, l’hard rock dei Jethro Tull si appoggia sul duetto chitarra distorta pianoforte che è uno dei tratti più distintivi del loro sound. Il riff celeberrimo del ritornello, doppiato dal basso, trascinante e swingato, renderà il brano uno dei più acclamati nelle esibizioni dal vivo.

    Le tre tracce successive, "Cheap Day Return", "Mother Goose" e "Wondering Aloud", costituiscono un trittico acustico di rara finezza: la prima è una toccante riflessione di Anderson su "come l’infermiera starà mai trattando il vecchio padre infermo", di fatto un pezzo-solo per chitarra acustica, arricchito dal canto quasi recitato e da qualche delicato spunto di flauto in sottofondo. In "Mother Goose" lo stesso Aqualung prende la parola per raccontare uno stralcio di giornata, fra minacce, rimpianti e vecchi amici. La chitarra acustica è padrona della scena, disegna una ritmica in 3 e 5/4 con divagazioni soliste ad avvolgere il canto dimesso di Anderson. Il flauto onnipresente arricchisce gli intermezzi. "Wond'ring Aloud" descrive una scena di coppia in toni sempre più malinconici, la voce è quasi un sussurro, la chitarra acustica sembra distante, suonata con leggerezza; violini e pianoforte arricchiscono con discrezione il quadretto.

    "Up to Me" innalza di nuovo la tensione e ci trasporta in un’atmosfera da medioevo inglese, ma il testo è un ritratto proletario, tutto ironica malinconia. Il refrain strumentale per flauto e chitarre è emblematico, e il brano è forse il più breve riassunto possibile della musica dei Jethro Tull fino al 1971.

    Il secondo lato si apre con "My God", che probabilmente costituisce la più alta vetta artistica di Anderson: un brano di sferzante satira sul tema della religione come elemento di controllo sociale. Si tratta di una mini-suite di sette minuti con introduzione acustica, tema hard rock per pianoforte e chitarra, intermezzo per flauto solo e voci corali, refrain strumentale con solo di flauto e ritorno al tema principale. Il tutto strutturato su una varietà impressionante di pattern ritmici (quasi tutti dispari, ma che sommati l’uno all’altro conducono a multipli di quattro), e con una costante atmosfera da epica di strada. La forte polemica anti-clericale e anti-religiosa del brano si fa evidente in versi come "People what have you done;\ locked Him in His golden cage.\ Made Him bend to your religion \ Him resurrected from the grave". Inizialmente anche l’album doveva chiamarsi "My God", ma il titolo dovette essere cambiato perché già circolava un bootleg live intitolato allo stesso modo: in effetti I Jethro Tull eseguivano la suite dal vivo già da tempo. La sezione centrale per voci corali e flauto ricorda da vicino l’atmosfera dei "Carmina Burana" (componimenti goliardici in latino risalenti al dodicesimo secolo, musicati nel 1937 da Carl Orff) magari arricchiti da numerosi bicchieri di birra. Il risultato è una "musica da taverna nella Canterbury medievale", che ben si armonizza con le altre vene compositive e tematiche del brano – l’epica hard rock, la satira di costume, l’atteggiarsi del leader a girovago menestrello. Il brano segna in realtà un punto di arrivo e un punto di partenza nella vicenda musicale della band: da una parte si è raggiunto il miglior equilibrio possibile delle molteplici suggestioni sonore che da sempre caratterizzano il sound dei Jethro Tull; dall’altro si è creato un precedente per le tendenze di Anderson alla diversificazione delle melodie, alla complicazione degli arrangiamenti e alla moltiplicazione delle strutture. Queste tendenze progressive segneranno in modo decisivo i dischi immediatamente successivi, a partire da "Thick as a Brick", fino a "A Passion Play" e "Minstrel in the Gallery".

    Il successivo brano si intitola "Hymn 43", e prosegue con la satira contro la religione e le sue strumentalizzazioni. È un semplice rock-blues di impianto tradizionale, ma la sua collocazione dopo i sette minuti di "My God" serve a stemperare la tensione. Lo si potrebbe quasi considerare come una "coda" al pezzo precedente, di cui tra l’altro riprende i temi, un semplice inno finale a chiudere una rappresentazione teatrale. La successiva "Slipstream" è un brevissimo quanto affascinante brano per chitarra acustica e voce sul tema della morte, arricchito da un lieve intervento di violini.

    "Locomotive Breath", vero e proprio must delle esibizioni dal vivo, riassume in sé tutta la vena hard-rock dei Jethro Tull , ripetendo tutte le idiosincrasie di Anderson riguardo al genere: introduzione di flauto, riff sincopato, ritmo di marcia, arresti improvvisi della batteria, canto istrionico e nasale.

    L’album si chiude con "Wind Up", ballata per pianoforte e voce, con sezione centrale in "ensemble". La voce narrante ricorda l’infanzia e riporta in primo piano tutti i nuclei tematici del disco: la condizione dei "falliti", la religione come strumento di potere, le ipocrisie della piccola borghesia inglese e, infine, la fede come fatto intimo ed esclusivamente personale, non assoggettabile alle regole del sistema millenario delle Chiese, che arrivano a dire quando e dove sia meglio pregare: "He’s not the kind you have to wind up on Sundays" ovvero, traducendo un po’ liberamente: "Non è il caso disturbarlo di Domenica". La chiusura è affidata proprio a questa frase, su accompagnamento di pianoforte.

    La parabola dei Jethro Tull non è ancora conclusa, e sebbene i loro lavori più recenti non possano competere con i dischi degli anni 70, sono certamente fra le band meglio invecchiate nella storia del rock. Le esibizioni dal vivo del Jethro Tull sono tuttora di grande spessore e ripropongono sempre una nutrita selezione di pezzi da "Aqualung".

    (da www.ondarock.it - Giovanni Agnes)

    GIUDIZIO PERSONALE
    l'ho ascoltato mille volte e ancora mi fa venire i brividi quando lo sento. Ci sono 3 o 4 canzoni famose, ma bisogna sentirlo tutto per apprezzarlo. La sequenza è geniale perchè ci sono pezzi tosti a cui seguono intermezzi acustici per tranquillizzare un pò.... poi si riparte con la chitarra. Diciamo che questo è il disco più hard rock di questo gruppo che è invece storicamente collocato nel prog rock; più che altro per l'utilizzo di diversi strumenti (flauto in primis) e per la varietà di generi (blues, folk, classicismi....) che sfiorano nelle loro composizioni.

    saluti

    roberto77mds
    Roberto "mds" Coia Socio fondatore ToRisiKo!
  2. #2
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    Re: I DISCHI STORICI

    Quote roberto77mds ha scritto:
    inauguro questa "rubrica" introducendo il mio disco preferito:

    JETHRO TULL



    AQUALUNG
    RECENSIONE

    GIUDIZIO PERSONALE
    l'ho ascoltato mille volte e ancora mi fa venire i brividi quando lo sento. Ci sono 3 o 4 canzoni famose, ma bisogna sentirlo tutto per apprezzarlo. La sequenza è geniale perchè ci sono pezzi tosti a cui seguono intermezzi acustici per tranquillizzare un pò.... poi si riparte con la chitarra. Diciamo che questo è il disco più hard rock di questo gruppo che è invece storicamente collocato nel prog rock; più che altro per l'utilizzo di diversi strumenti (flauto in primis) e per la varietà di generi (blues, folk, classicismi....) che sfiorano nelle loro composizioni.

    saluti

    roberto77mds

    FANTASTICO!!!
    Non so se è il migliore di sempre e di tutti.
    Sicuramente per me è tra i primi 5.
    Se la gioca con:
    Dark side of the moon
    The Wall
    Machine Head dei Deep Purple
    White Album dei Beatles

    Io ho la versione del 25esimo anniversario, con libretto e custodia in cartone della quale sono gelosissimo.
    L'ho ascoltato centinaia di volte pure io ... è un disco VIVO in cui tutti respira .. Ian, i fiati, le percussioni, l'ispirazione.


    Tra gli altri:
    Paranoid dei Black Sabbath
    Led Zeppelin II
    The Doors - The Doors (1967)
    Back in Black AC/DC
    Iron Maiden - Iron Maiden
    Abbey Road dei Beatles
    Sticky Fingers dei Rolling Stones
    In the Court of the Crimson King
    Are You Experienced di Hendrix
    Look At Yourself degli Uriah Heep
    CLUB GRIFONE DI VENEZIA
    Le magliette del Grifone ... vinci (forse) e perdi con eleganza.
  3. #3
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    Re: I DISCHI STORICI

    Non è il mio preferito (ci dovrei pensare), ma secondo me segna un'epoca, ha 8 brani tutti validi, di cui ben 6 sono capolavori di tecnica e creatività ... hanno fatto un quasi metal hard rock da pionieri senza sbagliare un pezzo!!
    Poi da sempre vado dicendo che i migliori album della musica sono dal 1967 al 1973 e dovrò smentirmi in qualche modo!!




    Iron maiden (EMI, 1980).

    "Prowler" è lo stacco chitarristico solitario iniziale, poi accompagnato dai singulti di una doppia cassa, infine collimato dalla voce più evocativa dell'intero metal. Sono 10 secondi, ma bastano per essere consci della catapulta subita dalle nostre orecchie e menti in un altro mondo. Cioè due: uno quello realmente fantastico della storia impressionistica narrata; l'altro, quello musicale, nuovo in quanto nei precedenti 13 anni di vita del rock (dal Velvet Underground del '67) non si era mai sentito niente del genere in termini di potenza, velocità, nera chiarezza.

    "Remember tomorrow" è uno di quelle rare preziosità dinanzi alle quali la categoria di "genere musicale" appare stupida e goffa. Un fantasma, uomo, ma ha la stessa delicatezza di un arto femminile, è pronto ad accompagnarti in un qualche convento abbandonato (da anime umane . perché è ricco zeppo di spiriti maligni). Nel '700, e in campo letterario, fu inventata la "poesia-horror". Questo brano la rifonda (e supera largamente in potenzialità evocativo-comunicativo-espressionistica). La cadenza di quest'armonioso può essere solo definitiva e totalizzante in un elegantissimo abbraccio di morte.

    "Running free": dimostra la grandezza di questo gruppo in queste stagioni: pur un brano violento e devastantemente veloce e sincopato come questo, riesce a non perdere nulla in termini di evocatività: l'evocare (ma il pennello ha, evidentemente, un'altra mano, un'altra epoca, un'altra aria, di quello dei Black Sabbath) la sceneggiatura della spedizione notturna in un cimitero gravido di pericoli da brivido.

    "Phantom of the opera" annulla ogni dubbio su un'eventuale meschinità riguardo al campo d'azione del gruppo, e apre lo scenario (con un incedere funambolico di supremi fraseggi chitarristici sostenuti da una prova assoluta e seminale della batteria) su una landa russa innevata e folle di giorni accecati dal bianco-neve e notti accecanti dal nero impenetrabile; come dire dal freddo del ghiaccio al caldo dell'inverno; dalla perdizione nelle steppe alla reclusione per essere sacrificati tra i bollori e i pentoloni di un qualche laboratorio di occulto totalitarismo. Musicalmente - ma ciò vale per tutto l'album e da qui per gli altri album del gruppo - ancora un pezzo inedito: nel metallo distribuito dalla chitarra, nella convinzione e complessità sinfonica del suono, nella velocità dell'esecuzione, nel canto smaliziato come proveniente da un genere istituzionalizzato da decenni (quando è qui che si istituzionalizza per la prima volta), nella sezione ritmica rivoluzionaria ad ogni passo.



    Lo strumentale "Transylvania" (e ringrazi, questa terra, il presente disco se folle di giovani l'hanno inondata dall'80 in poi) si configura come la ritirata dalle regioni di cui si diceva prima. Visionariamente efficace in ogni sua più piccola parte, riesce nel miracolo di ottenere ciò a ritmi e velocità che difficilmente lasciano lo spazio ad altro che il fine a se stesso. Ma è anche di più: l'invito a vedere con gli occhi saturi di tali evocazioni la realtà presente, la realtà che a ognuno si ostenta. Ecco l'intelligenza e l'universalità dell'operazione, matura come poche altre. Fra queste poche c'è stata quella dei Pink Floyd, che, almeno per i primi due album, furono fondamentali per i Maiden: non solo per il motivo para-musicale appena detto, ma anche per la musica stessa (il piglio sinfonico, tanti effetti di chitarra, la dilatazione del basso, la voce attaccata alla nuvola delle macerie).

    "Strange world" nella sinuosità del suo pathos sembra il frutto d'esperienza da vecchi del mestiere: e gli Iron Maiden sono alla prima, anche se assoluta, prova.

    "Charlotte the Harlot" continua col dimostrare il "non-fare di struzzo" degli Iron Maiden. La realtà (una *******: ma che *******!: il soggetto se n'è, modernamente e bohemienisticamente, innamorato) è spiattellata in faccia con tutta la sua evidente crudezza, per assimilarla, poi, e sopportarla, il pharmacon, sublime, di una nenia-re King Crimson (vedi "Epitaph" di "In the Court of the Crimson King").

    "Iron Maiden" è il capolavoro supremo dell'album e della produzione Iron Maiden tutta; come un blues, c'è tutto: l'afflato mistico dell'avventura cimiteriale, la potenza e velocità per l'epoca inaudite sfoggio delle innovazione operate dai Maiden, un ritornello telluricamente prossimo alla "Paranoid" sabbathiana, ma ad essa grandemente superiore perché, appunto, porta dalla terra (il tellurio) al cielo (qualunque esso sia). L'assolo di chitarra in vertiginoso crescendo, l'irrompere della batteria a grancassa metronoma: un manifesto, must assoluto di tutta la storia del rock, in cui merita di diritto un posto tra i suoi 10 brani più rappresentativi; e il tutto in 3'.35'', il che è dire: proprio perché soli 3'.55'', perché senza divagazioni dalla concentrazione poietica. D'altra parte il titolo non poteva lasciare dubbi.

    Di Tommaso Franci
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  4. #4
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    Re: I DISCHI STORICI

    Quote thejack ha scritto:
    Non è il mio preferito (ci dovrei pensare), ma secondo me segna un'epoca, ha 8 brani tutti validi, di cui ben 6 sono capolavori di tecnica e creatività ... hanno fatto un quasi metal hard rock da pionieri senza sbagliare un pezzo!!
    Poi da sempre vado dicendo che i migliori album della musica sono dal 1967 al 1973 e dovrò smentirmi in qualche modo!!




    Iron maiden (EMI, 1980).

    "Prowler" è lo stacco chitarristico solitario iniziale, poi accompagnato dai singulti di una doppia cassa, infine collimato dalla voce più evocativa dell'intero metal. Sono 10 secondi, ma bastano per essere consci della catapulta subita dalle nostre orecchie e menti in un altro mondo. Cioè due: uno quello realmente fantastico della storia impressionistica narrata; l'altro, quello musicale, nuovo in quanto nei precedenti 13 anni di vita del rock (dal Velvet Underground del '67) non si era mai sentito niente del genere in termini di potenza, velocità, nera chiarezza.

    "Remember tomorrow" è uno di quelle rare preziosità dinanzi alle quali la categoria di "genere musicale" appare stupida e goffa. Un fantasma, uomo, ma ha la stessa delicatezza di un arto femminile, è pronto ad accompagnarti in un qualche convento abbandonato (da anime umane . perché è ricco zeppo di spiriti maligni). Nel '700, e in campo letterario, fu inventata la "poesia-horror". Questo brano la rifonda (e supera largamente in potenzialità evocativo-comunicativo-espressionistica). La cadenza di quest'armonioso può essere solo definitiva e totalizzante in un elegantissimo abbraccio di morte.

    "Running free": dimostra la grandezza di questo gruppo in queste stagioni: pur un brano violento e devastantemente veloce e sincopato come questo, riesce a non perdere nulla in termini di evocatività: l'evocare (ma il pennello ha, evidentemente, un'altra mano, un'altra epoca, un'altra aria, di quello dei Black Sabbath) la sceneggiatura della spedizione notturna in un cimitero gravido di pericoli da brivido.

    "Phantom of the opera" annulla ogni dubbio su un'eventuale meschinità riguardo al campo d'azione del gruppo, e apre lo scenario (con un incedere funambolico di supremi fraseggi chitarristici sostenuti da una prova assoluta e seminale della batteria) su una landa russa innevata e folle di giorni accecati dal bianco-neve e notti accecanti dal nero impenetrabile; come dire dal freddo del ghiaccio al caldo dell'inverno; dalla perdizione nelle steppe alla reclusione per essere sacrificati tra i bollori e i pentoloni di un qualche laboratorio di occulto totalitarismo. Musicalmente - ma ciò vale per tutto l'album e da qui per gli altri album del gruppo - ancora un pezzo inedito: nel metallo distribuito dalla chitarra, nella convinzione e complessità sinfonica del suono, nella velocità dell'esecuzione, nel canto smaliziato come proveniente da un genere istituzionalizzato da decenni (quando è qui che si istituzionalizza per la prima volta), nella sezione ritmica rivoluzionaria ad ogni passo.



    Lo strumentale "Transylvania" (e ringrazi, questa terra, il presente disco se folle di giovani l'hanno inondata dall'80 in poi) si configura come la ritirata dalle regioni di cui si diceva prima. Visionariamente efficace in ogni sua più piccola parte, riesce nel miracolo di ottenere ciò a ritmi e velocità che difficilmente lasciano lo spazio ad altro che il fine a se stesso. Ma è anche di più: l'invito a vedere con gli occhi saturi di tali evocazioni la realtà presente, la realtà che a ognuno si ostenta. Ecco l'intelligenza e l'universalità dell'operazione, matura come poche altre. Fra queste poche c'è stata quella dei Pink Floyd, che, almeno per i primi due album, furono fondamentali per i Maiden: non solo per il motivo para-musicale appena detto, ma anche per la musica stessa (il piglio sinfonico, tanti effetti di chitarra, la dilatazione del basso, la voce attaccata alla nuvola delle macerie).

    "Strange world" nella sinuosità del suo pathos sembra il frutto d'esperienza da vecchi del mestiere: e gli Iron Maiden sono alla prima, anche se assoluta, prova.

    "Charlotte the Harlot" continua col dimostrare il "non-fare di struzzo" degli Iron Maiden. La realtà (una *******: ma che *******!: il soggetto se n'è, modernamente e bohemienisticamente, innamorato) è spiattellata in faccia con tutta la sua evidente crudezza, per assimilarla, poi, e sopportarla, il pharmacon, sublime, di una nenia-re King Crimson (vedi "Epitaph" di "In the Court of the Crimson King").

    "Iron Maiden" è il capolavoro supremo dell'album e della produzione Iron Maiden tutta; come un blues, c'è tutto: l'afflato mistico dell'avventura cimiteriale, la potenza e velocità per l'epoca inaudite sfoggio delle innovazione operate dai Maiden, un ritornello telluricamente prossimo alla "Paranoid" sabbathiana, ma ad essa grandemente superiore perché, appunto, porta dalla terra (il tellurio) al cielo (qualunque esso sia). L'assolo di chitarra in vertiginoso crescendo, l'irrompere della batteria a grancassa metronoma: un manifesto, must assoluto di tutta la storia del rock, in cui merita di diritto un posto tra i suoi 10 brani più rappresentativi; e il tutto in 3'.35'', il che è dire: proprio perché soli 3'.55'', perché senza divagazioni dalla concentrazione poietica. D'altra parte il titolo non poteva lasciare dubbi.

    Di Tommaso Franci
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    ....il capolavoro degli Iron Maiden....concordo.....
    la canzone "Iron Maiden" è la più bella mai fatta da loro....
    Album strepitoso che ,ahimè,non ho più....
    Carlo Bruno
    Per cancellare una vita ci vuole un attimo, per cancellare un
    attimo ci vuole una vita.
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    Re: I DISCHI STORICI

    Non posso non rispondere col mio disco preferito...



    Autore: KING CRIMSON
    Titolo: In The Court Of The Crimson King
    Anno: 1969
    Genere: progressive-rock
    Etichetta: Island


    Sembra quasi di sentirlo, l'urlo dell'uomo schizoide, guardando l'immagine trasfigurata della copertina di questo capolavoro assoluto del progressive rock britannico. Barry Godber riesce, attraverso la sua grottesca raffigurazione, a creare il vortice inesorabile che, partendo dalla cavità orale del "profetico mostro", giunge all'orecchio dell'ascoltatore.

    "In The Court of the Crimson King" è la prima fatica dei King Crimson, un'opera che rimarrà inevitabilmente un microcosmo a sé stante, nonostante gli impeccabili lavori realizzati in seguito dalla band di Robert Fripp. Atmosfere surreali e incantate, lunghe suite romantiche e complesse architetture sonore segnano un album che, a distanza di tanti anni, riesce ancora ad apparire moderno.

    E' 1969, un periodo in cui sulla scena britannica sono già sbocciate imponenti formazioni del calibro di Genesis, Soft Machine, Yes. Siamo in piena era progressiva, influenzata da più generi musicali quali il jazz, la musica classica e la musica atonale contemporanea. Il genio di Robert Fripp unito alla sua prima formazione, guidata dall'eccellente paroliere Peter Sinfield, plasmano con cura queste cinque tracce, magistralmente incatenate tra di loro, nel tentativo di generare un nuovo ordine musicale.

    La voce distorta di Greg Lake, futuro leader degli Emerson, Lake & Palmer, apre il primo atto della rappresentazione: "21th Century Schizoid Man". Un inizio a dir poco spiazzante, composizione frenetica, rumorista, ma allo stesso tempo melodica, che si incastra alla perfezione con la seconda traccia dell'album: "I Talk To The Wind". Il flauto di Ian McDonald si unisce alla lucida tranquillità della voce di Lake, in una quiete irreale, che fa presagire la tristezza contenuta della traccia successiva, la dolente "Epitaph". Il mellotron fa sentire la sua voce, il mostro urla di dolore: è un epitaffio ("Confusion will be my epitaph") che riguarda l'intera umanità; "But I fear tomorrow I'll be crying" profetizza Lake alla fine del pezzo.

    Si chiude il primo atto e si torna nell'illusione onirica e nella quiete stagnante di "Moonchild". La voce di Lake diventa sempre più flebile fino a lasciare spazio all'agonia dissonante degli strumenti degli altri musicisti, per una pura gemma free-form. Fervono i preparativi, i componenti della band, al seguito di Fripp, stanno per entrare alla corte del Re Cremisi. E' l'ultimo atto: "The Court of the Crimson King". Il suono del mellotron si fa sempre più incalzante e Lake conclude la sua parte seguito dai compagni che ribattono con un tono corale ossessivo e lancinante. Magnifico, in particolare, l'assolo al flauto di Ian McDonald. Sembra la fine, ma dando un'occhiata all'interno della copertina, ci accoglie il sorriso grottesco eppur rassicurante di un volto decisamente più umano. Sembra quasi elogiare la follia già annunciata secoli prima da Erasmo e perseguita con coraggio da Fripp e compagni.

    Si chiude così il primo capitolo dei King Crimson. Le formazioni cambieranno numerose volte nell'arco di trent'anni gravitando attorno alla sagoma imperiosa di Fripp, che cambierà marcia passando dal progressive più genuino dei primi tempi a successive elucubrazioni a volte apprezzabili, a volte forse un po' troppo pretenziose. I tempi cambiano e, ascoltando gli ultimi lavori del gruppo, risulta ormai difficile sentire l'urlo dell'Uomo Schizoide del Ventunesimo Secolo, ma resta pur sempre il suo sguardo allucinato che custodisce i suoni di un'opera che resta tuttora unica nel suo genere.

    Recensione di Rosario Leotta
    In fede,
    Kofi Annan

    Segretario Generale del CastelliRisiko!Club



  6. #6
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    Re: I DISCHI STORICI

    Quote _Kofi_ ha scritto:
    Non posso non rispondere col mio disco preferito...



    Autore: KING CRIMSON
    Titolo: In The Court Of The Crimson King
    Anno: 1969
    Genere: progressive-rock
    Etichetta: Island


    Sembra quasi di sentirlo, l'urlo dell'uomo schizoide, guardando l'immagine trasfigurata della copertina di questo capolavoro assoluto del progressive rock britannico. Barry Godber riesce, attraverso la sua grottesca raffigurazione, a creare il vortice inesorabile che, partendo dalla cavità orale del "profetico mostro", giunge all'orecchio dell'ascoltatore.

    "In The Court of the Crimson King" è la prima fatica dei King Crimson, un'opera che rimarrà inevitabilmente un microcosmo a sé stante, nonostante gli impeccabili lavori realizzati in seguito dalla band di Robert Fripp. Atmosfere surreali e incantate, lunghe suite romantiche e complesse architetture sonore segnano un album che, a distanza di tanti anni, riesce ancora ad apparire moderno.

    E' 1969, un periodo in cui sulla scena britannica sono già sbocciate imponenti formazioni del calibro di Genesis, Soft Machine, Yes. Siamo in piena era progressiva, influenzata da più generi musicali quali il jazz, la musica classica e la musica atonale contemporanea. Il genio di Robert Fripp unito alla sua prima formazione, guidata dall'eccellente paroliere Peter Sinfield, plasmano con cura queste cinque tracce, magistralmente incatenate tra di loro, nel tentativo di generare un nuovo ordine musicale.

    La voce distorta di Greg Lake, futuro leader degli Emerson, Lake & Palmer, apre il primo atto della rappresentazione: "21th Century Schizoid Man". Un inizio a dir poco spiazzante, composizione frenetica, rumorista, ma allo stesso tempo melodica, che si incastra alla perfezione con la seconda traccia dell'album: "I Talk To The Wind". Il flauto di Ian McDonald si unisce alla lucida tranquillità della voce di Lake, in una quiete irreale, che fa presagire la tristezza contenuta della traccia successiva, la dolente "Epitaph". Il mellotron fa sentire la sua voce, il mostro urla di dolore: è un epitaffio ("Confusion will be my epitaph") che riguarda l'intera umanità; "But I fear tomorrow I'll be crying" profetizza Lake alla fine del pezzo.

    Si chiude il primo atto e si torna nell'illusione onirica e nella quiete stagnante di "Moonchild". La voce di Lake diventa sempre più flebile fino a lasciare spazio all'agonia dissonante degli strumenti degli altri musicisti, per una pura gemma free-form. Fervono i preparativi, i componenti della band, al seguito di Fripp, stanno per entrare alla corte del Re Cremisi. E' l'ultimo atto: "The Court of the Crimson King". Il suono del mellotron si fa sempre più incalzante e Lake conclude la sua parte seguito dai compagni che ribattono con un tono corale ossessivo e lancinante. Magnifico, in particolare, l'assolo al flauto di Ian McDonald. Sembra la fine, ma dando un'occhiata all'interno della copertina, ci accoglie il sorriso grottesco eppur rassicurante di un volto decisamente più umano. Sembra quasi elogiare la follia già annunciata secoli prima da Erasmo e perseguita con coraggio da Fripp e compagni.

    Si chiude così il primo capitolo dei King Crimson. Le formazioni cambieranno numerose volte nell'arco di trent'anni gravitando attorno alla sagoma imperiosa di Fripp, che cambierà marcia passando dal progressive più genuino dei primi tempi a successive elucubrazioni a volte apprezzabili, a volte forse un po' troppo pretenziose. I tempi cambiano e, ascoltando gli ultimi lavori del gruppo, risulta ormai difficile sentire l'urlo dell'Uomo Schizoide del Ventunesimo Secolo, ma resta pur sempre il suo sguardo allucinato che custodisce i suoni di un'opera che resta tuttora unica nel suo genere.

    Recensione di Rosario Leotta
    concordo, ottimo disco, nulla da eccepire.

    Sicuramente il migliore dei King Crimson, insieme a Red (più jazz e con formazione totalmente rivista).

    Ne avessero fatti altri così belli i King......

    saluti

    roberto77mds
  7. #7
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    Re: I DISCHI STORICI

    Quote thejack ha scritto:
    Non è il mio preferito (ci dovrei pensare), ma secondo me segna un'epoca, ha 8 brani tutti validi, di cui ben 6 sono capolavori di tecnica e creatività ... hanno fatto un quasi metal hard rock da pionieri senza sbagliare un pezzo!!
    Poi da sempre vado dicendo che i migliori album della musica sono dal 1967 al 1973 e dovrò smentirmi in qualche modo!!




    Iron maiden (EMI, 1980).

    "Prowler" è lo stacco chitarristico solitario iniziale, poi accompagnato dai singulti di una doppia cassa, infine collimato dalla voce più evocativa dell'intero metal. Sono 10 secondi, ma bastano per essere consci della catapulta subita dalle nostre orecchie e menti in un altro mondo. Cioè due: uno quello realmente fantastico della storia impressionistica narrata; l'altro, quello musicale, nuovo in quanto nei precedenti 13 anni di vita del rock (dal Velvet Underground del '67) non si era mai sentito niente del genere in termini di potenza, velocità, nera chiarezza.

    "Remember tomorrow" è uno di quelle rare preziosità dinanzi alle quali la categoria di "genere musicale" appare stupida e goffa. Un fantasma, uomo, ma ha la stessa delicatezza di un arto femminile, è pronto ad accompagnarti in un qualche convento abbandonato (da anime umane . perché è ricco zeppo di spiriti maligni). Nel '700, e in campo letterario, fu inventata la "poesia-horror". Questo brano la rifonda (e supera largamente in potenzialità evocativo-comunicativo-espressionistica). La cadenza di quest'armonioso può essere solo definitiva e totalizzante in un elegantissimo abbraccio di morte.

    "Running free": dimostra la grandezza di questo gruppo in queste stagioni: pur un brano violento e devastantemente veloce e sincopato come questo, riesce a non perdere nulla in termini di evocatività: l'evocare (ma il pennello ha, evidentemente, un'altra mano, un'altra epoca, un'altra aria, di quello dei Black Sabbath) la sceneggiatura della spedizione notturna in un cimitero gravido di pericoli da brivido.

    "Phantom of the opera" annulla ogni dubbio su un'eventuale meschinità riguardo al campo d'azione del gruppo, e apre lo scenario (con un incedere funambolico di supremi fraseggi chitarristici sostenuti da una prova assoluta e seminale della batteria) su una landa russa innevata e folle di giorni accecati dal bianco-neve e notti accecanti dal nero impenetrabile; come dire dal freddo del ghiaccio al caldo dell'inverno; dalla perdizione nelle steppe alla reclusione per essere sacrificati tra i bollori e i pentoloni di un qualche laboratorio di occulto totalitarismo. Musicalmente - ma ciò vale per tutto l'album e da qui per gli altri album del gruppo - ancora un pezzo inedito: nel metallo distribuito dalla chitarra, nella convinzione e complessità sinfonica del suono, nella velocità dell'esecuzione, nel canto smaliziato come proveniente da un genere istituzionalizzato da decenni (quando è qui che si istituzionalizza per la prima volta), nella sezione ritmica rivoluzionaria ad ogni passo.



    Lo strumentale "Transylvania" (e ringrazi, questa terra, il presente disco se folle di giovani l'hanno inondata dall'80 in poi) si configura come la ritirata dalle regioni di cui si diceva prima. Visionariamente efficace in ogni sua più piccola parte, riesce nel miracolo di ottenere ciò a ritmi e velocità che difficilmente lasciano lo spazio ad altro che il fine a se stesso. Ma è anche di più: l'invito a vedere con gli occhi saturi di tali evocazioni la realtà presente, la realtà che a ognuno si ostenta. Ecco l'intelligenza e l'universalità dell'operazione, matura come poche altre. Fra queste poche c'è stata quella dei Pink Floyd, che, almeno per i primi due album, furono fondamentali per i Maiden: non solo per il motivo para-musicale appena detto, ma anche per la musica stessa (il piglio sinfonico, tanti effetti di chitarra, la dilatazione del basso, la voce attaccata alla nuvola delle macerie).

    "Strange world" nella sinuosità del suo pathos sembra il frutto d'esperienza da vecchi del mestiere: e gli Iron Maiden sono alla prima, anche se assoluta, prova.

    "Charlotte the Harlot" continua col dimostrare il "non-fare di struzzo" degli Iron Maiden. La realtà (una *******: ma che *******!: il soggetto se n'è, modernamente e bohemienisticamente, innamorato) è spiattellata in faccia con tutta la sua evidente crudezza, per assimilarla, poi, e sopportarla, il pharmacon, sublime, di una nenia-re King Crimson (vedi "Epitaph" di "In the Court of the Crimson King").

    "Iron Maiden" è il capolavoro supremo dell'album e della produzione Iron Maiden tutta; come un blues, c'è tutto: l'afflato mistico dell'avventura cimiteriale, la potenza e velocità per l'epoca inaudite sfoggio delle innovazione operate dai Maiden, un ritornello telluricamente prossimo alla "Paranoid" sabbathiana, ma ad essa grandemente superiore perché, appunto, porta dalla terra (il tellurio) al cielo (qualunque esso sia). L'assolo di chitarra in vertiginoso crescendo, l'irrompere della batteria a grancassa metronoma: un manifesto, must assoluto di tutta la storia del rock, in cui merita di diritto un posto tra i suoi 10 brani più rappresentativi; e il tutto in 3'.35'', il che è dire: proprio perché soli 3'.55'', perché senza divagazioni dalla concentrazione poietica. D'altra parte il titolo non poteva lasciare dubbi.

    Di Tommaso Franci
    Da Ondarock.it
    sinceramente non me lo ricordo. Me lo riscolto per bene e poi ti dico quello cher ne penso; comunque in linea di massima i primi dischi degli iron mi piacevano molto.

    saluti

    roberto77mds

    P.S. ora faccio un indice con i link alle presenazioni dei dischi
  8. #8
     T. Colonnello
     
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    Re: I DISCHI STORICI

    Premetto che dal punto di vista musicale il periodo che io preferisco è il decennio che va dal 1965 al 1975 (più o meno).

    E' inevitabile che in una sezione di rokkettari la maggior parte delle segnalazioni graviterà attorno a questo periodo (come è già successo nei post precedenti con poche eccezioni) e anch'io avrei delle difficoltà a sceglierne uno su tutti, tra i tanti che lo meriterebbero.

    Ho deciso quindi di ESCLUDERE COMPLETAMENTE questo periodo (tanto ci penserete degnamente voi ) per segnalare un disco assolutamente imperdibile, che si colloca in un'epoca successiva e addirittura in contrapposizione a quella precedente, il PUNK.

    Il disco in questione è:



    London Calling (1979)

    The Clash




    1979 London Calling - The Clash. Nel 1977 la rabbia e le tensioni sociali inglesi sfociavano nel fenomeno musicale detto “Punk”. In realtà di innovazione strettamente musicale ce n’era poca. La musica Punk era semplice, distorta e veloce; ma non era un innovazione. L’hardcore americano aveva preceduto (seppur di poco) il punk inglese. Ma c’era un novità; la musica punk andava sistematicamente contro tutto ciò che erano le “regole”. Andava contro la borghesia dell’hard rock, andava contro la lentezza e il perbenismo. Insomma musica volgare e spensierata, musica elementare perché chi la suonava non era un musicista ma un rivoltoso… Diciamolo pure, il punk è stata una boccata d’aria fresca per la musica, che si faceva sempre più fredda e vincolata alla tecnica (vedi il progressive). Ma un fenomeno del genere non può avere continuità perché inevitabilmente il furore degli inizi si perde e la formula risulta dopo un po’ noiosa, vista la scarsa capacità di inventare da parte dei punk (come già detto non erano musicisti). La parabola dei Sex Pistols è molto significativa; loro sono il primo vero gruppo punk e sono anche il migliore gruppo punk. Fecero un solo disco, immortale, e poi si sciolsero perché avevano già detto tutto. Ma ci fu un secondo disco punk ancora più epocale di “Nevermind The Bollocks” dei Pistols. Grazie a questo album la mentalità punk potè perdurare (fino ai giorni nostri) sotto le false vesti di New Wave. E come fece a sopravvivere una mentalità nichilista e assolutista come quella punk? Beh diciamo che si vestì di un abito di gala e applicò alla lettera quello che il punk (o meglio il rock n’ rock tutto) predicava: non ci sono regole, anzi le regole vanno infrante appositamente per dimostrare la propria indipendenza.

    Il disco in questione è London Calling. I Clash erano stati tra i migliori gruppi del punk datato ’77. il loro chiodo fisso era la politica e lo scontro sociale (clash appunto). Il loro esordio era di quelli al fulmicotone; più che canzoni facevano comizi accompagnati dalle chitarre (come dice un loro bellissimo pezzo dell’82). Ma nel proseguo della loro carriera si accorsero che qualcosa non andava; i testi di Joe Strummer erano troppo intellettuali per quel tipo di musica, le melodie di Mick Jones non si adattavano bene a quella musica così veloce e sgraziata. Insomma si accorsero che avevano capacità superiori a quelle che il punk richiedeva. Iniziarono la loro via verso forme più rock con il buon “Give ‘Em Enough Rope”, ma l’exploit arrivò con “London Calling”, appunto. In questo disco la filosofia punk è presente, aleggia sopra tutti i pezzi, come uno spirito guida. La differenza consiste nel fatto che qui la musica si fa migliore, ma non di poco. Al tempo fu un disco d’avanguardia; rimane tutt’ora un disco attualissimo. Sembrano canzoni d’oggi. C’è un grande riguardo verso la tradizione rock e una grande voglia di sperimentare nuove sonorità etniche. Da questo scaturiscono le 19 tracce (doppio Lp venduto come unico) del disco, che definire eterogeneo è poco. Eterogeneo ma non dispersivo, musicalmente raffinato, ma non fine a se stesso. Sperimentale, ma con un attitudine per nulla intellettualistica, bensì spontanea e incline al divertimento.


    La title track - "London calling" - è un capolavoro, la canzone più bella, famosa e importante del gruppo. Un classico rock, ben ritmato e scandito. Il testo, funestamente profetico (si parla di “nuclear error”, che si verificò a Cernobil dopo pochi anni), racconta delle “faraway towns”, cioè del degrado delle periferie. Molte canzoni del gruppo saranno improntate sulla politica.

    Anche “Brand New Cadillac” è un pezzo abbastanza classico. Semplice rock, sferzante e acido quanto basta. Già della terza traccia si intravedono sperimentazioni;

    “Jimmy Jazz” è un pezzo di jazz rarefatto e delicato. Fino a quel momento nessuno avrebbe potuto immaginare simili sviluppi. Ottimi i fiati e la chitarra davvero strana.

    Con “Hateful” si ritorna un po’ al passato; ed è un ritorno piacevole. Una sfuriata punk veloce ed incisiva. Certo, siamo ormai lontani dagli esordi; la musiche non si fanno mai distorte, ma l’ attitudine è la stessa.

    Ed eccoci giunti ad uno dei brani più freschi ed innovativi del disco. “Rudie Can’ t Fail” è una specie di ska-rock incentrato sui fiati. Nessuno prima aveva mai portato lo ska (prima di allora sconosciuto) nel mainstream. Il pezzo è poi arricchito dal manifesto gusto melodico del gruppo.

    Un altro pezzo melodico è “Spanish Bombs”, racconta della guerra civile in Spagna nel ’39. Deliziosa la prova di Jones, che si alterna al cantato a Strummer; quest’ultimo è l’anima militante del gruppo, il rivoltoso. Jones è il romantico. Il maggior pregio della canzone è la sua capacità di essere dolce, ma mai mielosa, grazie al refrain secco e asciutto.

    The Right Profile” ricalca un po’ lo stile ska della traccia cinque, ma con un gusto per il divertimento ancora maggiore. Sembra un marcia, i fiati sono spesso strani e ridondanti. Siamo arrivati fino alla traccia sette passando per brani belli, freschi ed innovativi.

    Ma alla otto traviamo un capolavoro assoluto, un pezzo che raggiunge quasi la bellezza della title track. “Lost In a Supermarket” è una canzone chiaramente pop. Una canzone avanti anni luce, sembra un pezzo di quelli che dilagavano negli anni ’90, tutto però nel ’79. La splendida melodia di Jones non stanca mai, potrei ascoltarla mille volte ed avere ancora voglia di sentirla. Impreziosita da un testo triste, dolce e attualissimo. È un affresco della società nel dopoguerra, con la ripresa economica, nuovi mondi sono di là a venire.

    “Clampdown” è un brano energico e fresco. Dopo ben quattro pezzi leggeri, finalmente qualche schitarrata potente.

    Bene, ora siamo pronti per il brano centrale del disco, summa perfetta di tutte le nuove direzioni intraprese dal gruppo. Cantata dal bassista Paul Simonon (quello in copertina), “The Guns Of Brixton” è un reggae-rock, davvero stupendo. Uno dei pezzi più originali dell’ intera carriera dei Clash. La voce densa e bassa di Paul, la batteria pulsante e le chitarre in levare fanno di questo pezzo uno dei capisaldi del rock. Chiaro precursore del fenomeno crossover. Si nota qui una delle caratteristiche del gruppo che gli ha permesso di rinnovarsi e ampliare le sue possibilità. Il batterista Topper Headon non era di certo il tipo batterista punk; oltre ad essere tecnicamente superiore, egli era l’unico membro del gruppo di ceto elevato. Fattori questi, determinanti per lo sviluppo dello stile Clash. Oltre a permettere di suonare vari generi musicali grazie alla sua ottima tecnica, il fatto che ci fosse un membro “staccato” dalle condizioni psico-sociali degli altri ha permesso uno sviluppo meno influenzato dalla rivincita sociale, bensì dalla critica costruttiva.

    Testo politico reso ancora più credibile dal fatto che Simonon sia proprio di Brixton, a conferma della sincerità del gruppo. “Wrong ‘em Boyo” è uno dei pezzi che preferisco. È un brano allegretto, divertente e chiassoso. I fiati sono bellissimi e rendono la melodia ancora più accattivante e originale. Bisognerebbe sentirlo per poterlo descrivere; vi posso dire che non è come ve lo immaginate. Perché è davvero inimmaginabile!

    "Death Or Glory” si distingue per il suo refrain orecchiabile e per le chitarre sferzanti, sempre più rare nella musica del gruppo. Da notare il fatto che la chitarra non ha mai un ruolo centrale nelle canzoni, ma fa da supporto. Questo sta a dimostrare ancora una volta la solidità delle composizioni. Notevole il crescendo melodico finale.

    “Koka Kola” lascia infuori gli argomenti trattati fin dal titolo. È un altro brano pop-rock, dal ritmo incalzante.

    “The Card Cheat” è quella canzone che non t’aspetti (come molte nel disco). La musica orchestrata, dolce e densa, parte piano e si intensifica in un crescendo memorabile. La melodia vocale, così bella da commuovere, nella parte centrale, tesa ed emotiva, raggiunge vette comunicative davvero impareggiabili. Perfetta in ogni sua nota, in ogni parola. A mio parere il miglior brano in assoluto del gruppo; per quello che trasmette.

    “Lovers Rock” è l’ unico pezzo chitarristico e presenta addirittura un assolo nel mezzo. Da notare il cantato sempre dolce ed intimo.

    “Four Horsemen” dà un po’ di ritmo, ma è ormai chiaro che il disco ha una forte impronta melodica. La strofa più sferzante e il ritornello in crescendo. Davvero forte ed incisiva! I Clash sono ormai capaci di fare ciò che vogliono e in “London Calling” sono al massimo della loro creatività e affiatamento.

    Ed ecco alla terz’ultima traccia rispuntare il caro punk-rock, sempre comunque modellato alle proprie esigenze. “I’m Not Down” come a dire; si mi sono calmato, ma non vuol dire che non stia ancora combattendo. Cambia solo il metodo. Oltretutto, i pezzi simili a quelli degli esordi, godono di maggior freschezza e vivacità rispetto a questi perché impregnati di melodia e gusto stilistico.

    “Revolution Rock” è l’ultima traccia. Si tirano le somme. Qui convivono reggae, melodia, invettiva, fiati, ritmica accentuata ed eccellente gusto estetico. Pur essendo musica complessa per le numerose influenze, risulta piacevole anche a chi si sofferma ad un ascolto superficiale e poco attento.

    “Train In Vain” è la traccia nascosta del disco. Infatti i Clash non volevano pubblicarla perché la ritenevano troppo pop. Fortunatamente lo fecero e ci regalano questa perla, una delle melodie più cristalline e agrodolci del gruppo.


    Bene, dopo circa un’ora il disco è finito. Che dire, è un disco veramente ricco e vario. Sicuramente ha un posto non irrilevante nella storia della musica. Nella sua eterogeneità non risulta dispersivo, bensì unitario e compatto. È un disco che ha influenzato e continua ad influenzare la musica rock. Il Rock n’ Roll passa per London Calling. E ne esce trasformato.

    (tratto da http://www.debaser.it/)



    Un'altra esaurientissima recensione, quasi un trattato su questo disco (ma troppo lunga da postare qui) la trovate su ondarock http://www.ondarock.it/pietremiliari/london.html





    Punk's not dead!




    .
    Paolo Valdisserri - Club Grifone Venezia
    What? "Over"? Did you say "over"? Nothing's over until we decide it is! Was it over when the Germans bombed Pearl Harbor? Hell, no! And it ain't over now. 'Cause when the going gets tough... the tough get going! (John Blutarsky)

    ... addà passà a nuttat ...
  9. #9
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    Re: I DISCHI STORICI






    Pearl Jam
    Ten
    Autore: Benedetta Urbano


    Descrivere questo album non sarà compito facile. Specie se sul podio nella tua mente lo posizioni sul gradino più alto. L’ amore furente per un disco pregiudica sicuramente un’esposizione analitica e distaccata, e dopo un instancabile ascolto durato circa 13 anni parlarne diventa quasi come rispondere ad una domanda del tipo “Vuoi bene alla mamma?”. Questo disco è il geniale spaccato della frustrata America anni 90. Le donne conquistata l’emancipazione, crescono i bambini con latte e Ritalin, i mariti spaventati dalle loro mogli in tailleur e 24ore vanno a comprare le sigarette e non tornano più casa e i giovani, che fanno della musica la loro unica ragione di vita, sistemano le scatole negli scaffali dei supermercati sognando un futuro on stage. La perdita di un amico per overdose di eroina (Andrew Wood) e la fine di un sogno quasi realizzato (Mother Love Bone) si uniscono casualmente all’adolescenza triste e turbolenta di un surfer di San Diego, dando vita ad un progetto fatto di rock, rabbia e camicie di flanella. In linea di massima lo scenario dovrebbe essere questo e ancora una volta, in una simile indifferenza sociale, io godo del disagio interiore di qualcun altro. Con l’intro fluttuante e sinistra di “Once” e con l’incontenibile impeto heavy metal di McCready i Pearl Jam si presentano al mondo intero, proponendo il primo oscuro personaggio di una lunga serie. Ognuno di essi salta fuori dalla penna dell’allora introverso Eddie Vedder, e ognuno di essi assume un ruolo preciso in quel contesto sociale arido e malato. Serial killer, disadattati, senzatetto e adolescenti incompresi che patiscono quotidianamente la strafottenza dei genitori fino a decidere di spararsi un colpo di pistola in pieno cranio di fronte tutta la classe. Questi gli attori principali, queste le vittime di una frustrazione e di un’insoddisfazione che, nella maggior parte dei pezzi, si concretizza a colpi di un hard rock violento e impetuoso o con un trascinante grunge-rock melodico dagli effetti ipnotici e seducenti. Siamo in piena deflagrazione grunge ma questo disco distrugge ogni tentativo di standardizzazione. La furia hard rock di “Even Flow”, “Why Go”, “Porch”, “Deep”, si combina abilmente alle melodia dei suoi refrain avvelenati e adrenalinici a tal punto da far scoppiare le vene. Il basso timbro di Vedder e la sua “ira funesta” amplificano tutta questa rabbia aggravando in maniera impressionante la potenza dei suoi colleghi che sembrano quasi sul punto di violentare i propri “arnesi”. La calma apparente e le melodie meno ossessive e graffianti si assaporano con “Black”, forse unico brano dedicato alla sofferenza generata dal sentimento più innocuo in questo contesto: l’amore, o con “Release” che dopo la tempesta chiude l’album con toni lenti e mesti. Sembrerebbe sia giunta la quiete ma effettivamente non è così, perché dietro quella pacatezza si nasconde una preghiera, una richiesta di liberazione, forse dai fantasmi del passato, forse dal terribile rimorso di non aver saputo in tempo la vera natura della propria esistenza. Non ci sarà mai data un'unica interpretazione realmente attendibile, quello che è certo che quel “release me” raggiunge una profondità tale da turbare l’animo di chiunque lo ascolti. Ma no, è l’intero album che sconquassa corpo e anima! Questo il vero Riot Act! Se continuo rischio di diventare patetica. Troppo innamorata! Ma vi prego se ancora non lo avete, o se possedete solo i successivi…COMPRATELO….è il migliore!
  10. #10
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    Re: I DISCHI STORICI

    Quote paolovaldo ha scritto:

    London Calling (1979)
    azzz.... mi hai fragato sul tempo!

    il mio disco preferito!
    revolution rock la mia canzone preferita... an

    anche se bisogna ricordare anche SANDINISTA, il successivo album dei CLASH (un disco TRIPLO!), forse un po' meno immediato e penalizzato da una qualità di registrazione inferiore ... sicuramente più "sperimentale" ed in grado di racchiudere in sé tutte le evoluzioni e le contaminazioni che si andranno definendo nel rock dei decenni successivi
    una disco epocale....
    Sparuto minoritario e minimod
    non sono più quello di una volta... soltanto la retorica è rimasta la stessa

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