Non è il mio preferito (ci dovrei pensare), ma secondo me segna un'epoca, ha 8 brani tutti validi, di cui ben 6 sono capolavori di tecnica e creatività ... hanno fatto un quasi metal hard rock da pionieri senza sbagliare un pezzo!!
Poi da sempre vado dicendo che i migliori album della musica sono dal 1967 al 1973 e dovrò smentirmi in qualche modo!!
Iron maiden (EMI, 1980).
"Prowler" è lo stacco chitarristico solitario iniziale, poi accompagnato dai singulti di una doppia cassa, infine collimato dalla voce più evocativa dell'intero metal. Sono 10 secondi, ma bastano per essere consci della catapulta subita dalle nostre orecchie e menti in un altro mondo. Cioè due: uno quello realmente fantastico della storia impressionistica narrata; l'altro, quello musicale, nuovo in quanto nei precedenti 13 anni di vita del rock (dal Velvet Underground del '67) non si era mai sentito niente del genere in termini di potenza, velocità, nera chiarezza.
"Remember tomorrow" è uno di quelle rare preziosità dinanzi alle quali la categoria di "genere musicale" appare stupida e goffa. Un fantasma, uomo, ma ha la stessa delicatezza di un arto femminile, è pronto ad accompagnarti in un qualche convento abbandonato (da anime umane . perché è ricco zeppo di spiriti maligni). Nel '700, e in campo letterario, fu inventata la "poesia-horror". Questo brano la rifonda (e supera largamente in potenzialità evocativo-comunicativo-espressionistica). La cadenza di quest'armonioso può essere solo definitiva e totalizzante in un elegantissimo abbraccio di morte.
"Running free": dimostra la grandezza di questo gruppo in queste stagioni: pur un brano violento e devastantemente veloce e sincopato come questo, riesce a non perdere nulla in termini di evocatività: l'evocare (ma il pennello ha, evidentemente, un'altra mano, un'altra epoca, un'altra aria, di quello dei Black Sabbath) la sceneggiatura della spedizione notturna in un cimitero gravido di pericoli da brivido.
"Phantom of the opera" annulla ogni dubbio su un'eventuale meschinità riguardo al campo d'azione del gruppo, e apre lo scenario (con un incedere funambolico di supremi fraseggi chitarristici sostenuti da una prova assoluta e seminale della batteria) su una landa russa innevata e folle di giorni accecati dal bianco-neve e notti accecanti dal nero impenetrabile; come dire dal freddo del ghiaccio al caldo dell'inverno; dalla perdizione nelle steppe alla reclusione per essere sacrificati tra i bollori e i pentoloni di un qualche laboratorio di occulto totalitarismo. Musicalmente - ma ciò vale per tutto l'album e da qui per gli altri album del gruppo - ancora un pezzo inedito: nel metallo distribuito dalla chitarra, nella convinzione e complessità sinfonica del suono, nella velocità dell'esecuzione, nel canto smaliziato come proveniente da un genere istituzionalizzato da decenni (quando è qui che si istituzionalizza per la prima volta), nella sezione ritmica rivoluzionaria ad ogni passo.
Lo strumentale "Transylvania" (e ringrazi, questa terra, il presente disco se folle di giovani l'hanno inondata dall'80 in poi) si configura come la ritirata dalle regioni di cui si diceva prima. Visionariamente efficace in ogni sua più piccola parte, riesce nel miracolo di ottenere ciò a ritmi e velocità che difficilmente lasciano lo spazio ad altro che il fine a se stesso. Ma è anche di più: l'invito a vedere con gli occhi saturi di tali evocazioni la realtà presente, la realtà che a ognuno si ostenta. Ecco l'intelligenza e l'universalità dell'operazione, matura come poche altre. Fra queste poche c'è stata quella dei Pink Floyd, che, almeno per i primi due album, furono fondamentali per i Maiden: non solo per il motivo para-musicale appena detto, ma anche per la musica stessa (il piglio sinfonico, tanti effetti di chitarra, la dilatazione del basso, la voce attaccata alla nuvola delle macerie).
"Strange world" nella sinuosità del suo pathos sembra il frutto d'esperienza da vecchi del mestiere: e gli Iron Maiden sono alla prima, anche se assoluta, prova.
"Charlotte the Harlot" continua col dimostrare il "non-fare di struzzo" degli Iron Maiden. La realtà (una *******: ma che *******!: il soggetto se n'è, modernamente e bohemienisticamente, innamorato) è spiattellata in faccia con tutta la sua evidente crudezza, per assimilarla, poi, e sopportarla, il pharmacon, sublime, di una nenia-re King Crimson (vedi "Epitaph" di "In the Court of the Crimson King").
"Iron Maiden" è il capolavoro supremo dell'album e della produzione Iron Maiden tutta; come un blues, c'è tutto: l'afflato mistico dell'avventura cimiteriale, la potenza e velocità per l'epoca inaudite sfoggio delle innovazione operate dai Maiden, un ritornello telluricamente prossimo alla "Paranoid" sabbathiana, ma ad essa grandemente superiore perché, appunto, porta dalla terra (il tellurio) al cielo (qualunque esso sia). L'assolo di chitarra in vertiginoso crescendo, l'irrompere della batteria a grancassa metronoma: un manifesto, must assoluto di tutta la storia del rock, in cui merita di diritto un posto tra i suoi 10 brani più rappresentativi; e il tutto in 3'.35'', il che è dire: proprio perché soli 3'.55'', perché senza divagazioni dalla concentrazione poietica. D'altra parte il titolo non poteva lasciare dubbi.
Di Tommaso Franci
Da Ondarock.it