LEONE D'ORO ALLA CARRIERA A DAVID LYNCH



Lynch Empire

04/08/2005 - Visioni, mostri e paure per rifuggire la normalità: è il potere del regista americano. Premiato con il Leone alla carriera


Assegnare il Leone d'Oro alla carriera a un regista che ha appena compiuto sessant’anni, nel pieno della sua attività, per di più ancora in cammino verso una maturità artistica, prima che esistenziale, può suscitare stupore e alimentare polemiche. Non potrebbe essere altrimenti con David Lynch, regista amato e "odiato" in egual misura, oggetto di un culto cinefilo che bene si addice a un festival targato Müller. Una scelta forte, da qualcuno letta magari come una provocazione, attraverso la quale si spezza la lunga catena di riconoscimenti dovuti che poco aggiungono alla grandezza di un regista o di un attore, e solo li immortalano a futura memoria. Nel caso di Lynch si dovrebbe parlare più che di Leone d'Oro alla carriera (ripetiamo, una carriera ancora in corso e fin dal prossimo, come sempre, misterioso film, Inland Empire, in grado di sovvertire posizioni critiche più o meno consolidate) di Leone d'Oro speciale che premia uno dei registi più innovativi del cinema mondiale. Riconoscendogli la statura di grande Autore, al pari di Altman, Kubrick, Coppola, Polanski, per citare alcuni dei tanti registi che lo hanno preceduto: un po' come accaduto nel 2000 con Clint Eastwood, il Leone d’Oro giunge in questo caso come un'investitura ufficiale, sgombrando il campo da dubbi e scetticismi. David Lynch assurge a maestro del cinema mondiale (è sufficiente leggere l'elenco dei premiati con il Leone d'oro alla carriera a partire dal 1969 quando si rese omaggio a Luis Buñuel) e il festival di Venezia offre l’occasione critica di ripensare alla sua opera complessiva, la quale si presta a molteplici chiavi di lettura. Più che un regista, Lynch è un artista che opera con la macchina da presa, un pittore del (chiaro)scuro, che è penetrato nelle nostre coscienze sezionando le molteplici zone d’ombre e facendo crollare le fragile certezze dell’uomo postmoderno. I suoi film sono delle finestre aperte sulla psiche: Lynch era pervenuto già prima di Internet alla logica dei link che ci portano sempre più lontani dal punto di partenza ed è inevitabile per lo spettatore perdersi, è in questo progressivo smarrimento il concetto stesso di verità, con il quale ognuno deve confrontarsi, viene meno. «Ci sono molte cose nascoste che sembrano segreti; e tu non riesci a capire con certezza se sei solo un paranoico o se questi segreti ci sono davvero». Un lavoro di scavo nell’interiorità dei personaggi, peraltro intrapreso puntando su un gusto estetico perfino eccentrico nelle sue manifestazioni, per cui anche la realtà esterna si presenta, ad una visione “normalizzante”, come frutto di distorsioni e per lo spettatore non ci sono vie di fuga. Come recita il titolo italiano del suo film di esordio, Eraserhead, la mente che cancella. E inevitabilmente genera mostri, perché l’orrore (altro tema con cui l’uomo postmoderno è costretto a confrontarsi e a convivere perché la quotidianità è divenuto il teatrino dell’orrore: il male che ci assedia dalle pagine di giornali, dalla tv, da Internet facendoci rimbalzare la cronaca dettagliata di ogni tragedia) è dentro di noi. «La tua mente comincia a creare cose di cui preoccuparsi. E una volta che sei esposto a qualcosa di pauroso e ti accorgi che molte di queste cose non vanno bene e che molta gente prende parte a cose orribili e strane, allora cominci a preoccuparti che la vita felice e pacifica che stai trascorrendo potrebbe scomparire». L'improvvisa discesa in un abisso, popolato di freaks, ma anche di personaggi da fumetto, cattivi da caricatura: più che dall’orrore, Lynch fugge, infatti, dalla cosiddetta normalità, vera piaga sociale che tutto abbrutisce, e smonta il processo mentale volto ad affermarla elevando la diversità a prospettiva ideale dal quale guardare ciò che rimane della realtà esposta alla sua fantasia. L’elephant man è l'emblema stesso del cinema di Lynch, anche se lì il gioco è fin troppo scoperto, quasi didascalico, mentre in opere come Velluto blu o Mulholland Drive si ha la percezione di un labirinto (palese è il suo amore per Kafka) che risucchia i personaggi e non ci sono appigli né concessioni al sentimentalismo. Non è un caso che Lynch parli dei suoi film come di fiabe o di sogni: non è tanto la vita dei personaggi che sfugge via, ma la realtà stessa come noi siamo abituati (ed educati) a comprenderla. Eraserhead è in questo senso esemplare, ponendosi prima di tutto come esperienza visiva che richiede allo spettatore uno sguardo del tutto vergine e ha la forza, alla fine della visione, di imporsi nella mente come qualcosa di assolutamente innovativo, anche oggi, a trent’anni quasi di distanza. Inutile tentare di raccontare la trama o la storia, categorie che mal si prestano alla lettura del cinema di Lynch (del resto fallimentare è qualsiasi tentativo di parlarne e di scriverne che non sia accompagnato dalla visione dei suoi film: per questo l’assegnazione del Leone d’oro non accompagnata da una retrospettiva ha poco senso, al di là di quanto detto all’inizio sul riconoscimento che esso rappresenta). Mai come in questo caso le parole sono un invito alla visione di un’opera nella quale inevitabili sono gli alti e bassi e ogni film può essere letto in antitesi del precedente piuttosto che come una prosecuzione, e l'idea stessa dell’insuccesso commerciale non è vissuto come un fallimento, anche perché ogni film si presta a letture posteriori. Di qui l’immagine di un’opera aperta, oltre che in itinere, nel quale nessun tassello è in grado da solo di racchiudere la poetica di questo autore che non sembra inseguire il capolavoro, come summa della propria carriera, ma piuttosto procedere a fari spenti nella notte lungo una strada solo apparentemente dritta perché attorno scorre il deserto con i suoi fantasmi. La magnifica ossessione di una strada senza curve, così mentalmente confortante, si rivela ben presto un’illusione: il sogno americano ha partorito anche i mostri lynchiani (un regista capace di trasformarsi in un aggettivo, come Fellini). Per contro, Lynch ha contribuito ad alimentare quel sogno raccontando la storia vera dell’agricoltore che attraversa l’America in sella a un tosaerba per riconciliarsi con il fratello. Un film solare, apparentemente inconciliabile con le opere precedenti, nel quale, però, non mancano zone d’ombre: il dolore dell’esistenza che culmina nella vecchiaia e che viene stemperato dal ricordo. L'altra faccia di Lynch? No, solo un’altra porta d’accesso al suo universo. La più accogliente, in grado di attirare anche gli scettici e di conquistarli, per una volta, molto lentamente, salvo poi condurli fuori strada. I rettilinei nascondono sempre insidie nascoste. Strade perdute.