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Discussione: Aiutiamo i cristiani di Erbil
  1. #1
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    Aiutiamo i cristiani di Erbil

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    Un Ponte per Erbil: salviamo le famiglie di cristiani sfollati.
    Una piccola donazione può fare la differenza

    Salviamoli dal freddo e della fame. E, soprattutto, condividiamo con loro un Natale migliore. I cristiani sfollati di Erbil e Ankawa hanno bisogno di cose semplici ma fondamentali: coperte, riso, fave, detersivi. L'inverno è alle porte e non c'è tempo da perdere. Per questo - rispondendo alla lettera inviata all'HuffPost dal sacerdote iracheno Behnam Benoka - la nostra redazione ha deciso di aderire alla campagna di Natale dell'associazione "Un ponte per...", che da anni opera in Iraq.

    Invitiamo i nostri lettori a effettuare una donazione su uno dei due conti correnti dell'associazione. Ricordando che con l'equivalente di 100 dollari (meno di 80 euro) si può letteralmente salvare una famiglia.

    Questi sono i conti per I versamenti.
    Posta: ccp 59927004 intestato a: associazione Un ponte per
    Banca: conto corrente n 100790 Banca Popolare Etica
    IBAN: IT52 R050 1803 2000 0000 0100 790
    CIN: R ABI:05018 CAB:03200 SWIFT: CCRTIT2T84A

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    Leggi anche:
    Erbil, salviamo le famiglie di cristiani sfollati. Bastano 100 dollari a famiglia. L'appello di padre Benoka
    "Meno di 80 euro per salvare dal freddo e dalla fame una famiglia cristiana di Erbil". Il blog di Lucia Annunziata
    "80 euro da noi sono un simbolo, a Erbil fanno la differenza per sopravvivere". Il blog di Lia Quartapelle
    "La guerra a casa nostra". Il blog di Un Ponte Per

    We are the sons and daughters of all the freedom fighters.
    And there are still many rivers to cross.
    Hands in the air, screaming loud and clear for freedom, justice and equality.
    There is no black or white, there is only right and wrong.
    We are unknown heros, we are flesh and we are blood.
    We are the great future.
    We need to get back to the joy of living.
    We are five fingers of an empty hand.
    But together, we can also be the fist.
    Sometimes change can be as simple as two hands reaching for one another.
    Clap your hands.


  2. #2
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    Re: Aiutiamo i cristiani di Erbil

    Meno di 80 euro per salvare dal freddo e dalla fame una famiglia cristiana di Erbil

    Con soli 100 dollari - meno di 80 euro - è possibile dare un contributo concreto che permetta ai cristiani sfollati di Erbil e Ankawa di superare l'inverno. Qualunque nostro aiuto sarà una goccia nel mare, ma vale la pena. Abbiamo scelto di far convergere gli sforzi di tutti, i nostri e quelli che riusciremo a stimolare, sulla campagna di raccolta fondi per Natale avviata dalla organizzazione "Un ponte per...". Io ho già scritto nella lista dei nomi il mio. Aspetto i vostri.

    Lucia Annunziata


  3. #3
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    Re: Aiutiamo i cristiani di Erbil

    Ho trovato questo interessante articolo lo posto per chi come "me" non ha presente le dimensioni e la gravita' della situazione. Non pensavo sinceramente....

    Quale futuro per gli sfollati iracheni?
    Da Erbil, le testimonianze di due cooperanti italiani




    «In due giorni Ankawa è diventata irriconoscibile». «Non ci sono un parco, una scuola o una chiesa che non abbiano dato rifugio alle persone che sono fuggite da Qaraqosh, da Bartella, da Bashiqa e da tutti quei centri che si trovano tra Mosul ed Erbil». «Il volto del quartiere è cambiato rapidamente e drasticamente. Alcune strade sono state chiuse per fare spazio a campi di tende improvvisate». Le voci di Marco Labruna e Patrizia Marocchi arrivano da Ankawa, il quartiere cristiano di Erbil. Questa città di un milione e mezzo di abitanti è il capoluogo della regione autonoma del Kurdistan iracheno, il centro per difendere il quale il presidente Obama ha deciso gli attacchi aerei contro i miliziani dello Stato Islamico e, soprattutto, il luogo verso cui si sono riversati gli sfollati fuggiti a causa della recente avanzata degli estremisti musulmani sunniti del neo proclamato Califfato. «Sinceramente ero arrivato con tutt’altre prospettive» confida Marco, che è giunto in Kurdistan lo scorso maggio insieme a Patrizia come cooperante per l’associazione italiana Un ponte per…«Fino a poche settimane fa – continua – non operavamo in un contesto di emergenza. Erbil era una città molto sicura, tranquilla, in crescita, sede di molte Ong, soprattutto ad Ankawa, dove anche noi abitiamo e lavoriamo».

    Come ha scritto Steve Coll sul New Yorker, Erbil «dal 2003, è stata il luogo più stabile in un paese instabile» e infatti i progetti di Un ponte per…, che è attiva in Iraq dal 1991, sono principalmente interventi di sviluppo. «Oltre che azioni di supporto psico-sociale ai profughi siriani rifugiati in zona – spiega Marco, che ad Erbil è capo missione – i nostri progetti qui si occupano di cultura e istruzione e sono portati avanti in stretta collaborazione con le minoranze irachene». Cristiani e Yazidi soprattutto, ma anche Assiri e Shabaki, Turkmeni e Caldei, le principali vittime delle ultime conquiste dello Stato Islamico (prima noto come Isis). «Dei colleghi di Bashiqa di un’organizzazione partner – racconta Patrizia – ci hanno raccontato che sulla loro sede oggi sventola la bandiera nera dello Stato Islamico. Temono che verrà distrutta dai combattimenti, magari dai bombardamenti statunitensi». «Nel giro di poco tempo – prosegue Marco – ci siamo ritrovati in mezzo a un’emergenza. Le organizzazioni delle minoranze con cui abbiamo relazioni durature e consolidate, come per esempio la Yazidi Solidarity and Fraternity League di Bashiqa, hanno iniziato a chiedere aiuto e non potevamo certo tirarci indietro. Dallo sviluppo si è passati all’emergenza.

    Secondo l’Unhcr, dall’inizio dell’anno, gli sfollati interni in Iraq hanno raggiunto quota 1,2 milioni, di cui circa 700mila hanno trovato rifugio in Kurdistan. Senza contare che la regione già aveva dato ospitalità negli ultimi anni ad almeno 220-230mila profughi provenienti dalla Siria. La sorprendente avanzata dello Stato Islamico di inizio agosto nel nord del Paese non ha fatto che peggiorare la situazione, mettendo ancora più sotto pressione un territorio come quello del Kurdistan iracheno che, proprio per la sua stabilità e la sua relativa sicurezza, sta accogliendo un numero enorme – e crescente – di persone. Ma che rimane comunque un “non stato” di poco più di cinque milioni di abitanti. «La comunità di Erbil, e quella di Ankawa in particolare, si sono mobilitate per aiutare gli sfollati» ricorda Marco. «Molti dei locali che affollano il quartiere erano vuoti nei giorni dei primi arrivi – gli fa eco Patrizia – perché i clienti abituali avevano deciso di rinunciare ai tradizionali tè e narghilè per devolvere quei pochi soldi in favore delle persone rimaste senza nulla. La solidarietà umana scalda il cuore. Ciò che ferisce di più, invece, è la brutalità dei racconti di chi fugge e i traumi che si porteranno addosso queste persone».


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    Le preoccupazioni maggiori però non sono legate al passato, ma al futuro. Quello più prossimo e quello più lontano. «Rispetto a quanto fatto con i profughi siriani – argomenta Marco – garantire un’accoglienza minima ai nuovi sfollati è più difficile. Un po’ perché le risorse economiche stanno diminuendo, un po’ perché oggi il Governo regionale curdo è impegnato nelle azioni militari contro l’IS e la priorità in tutti i servizi va ai militari. Il supporto della comunità internazionale è quindi cruciale». Nell’immediato, ma non solo. A fine giugno, quando sono stato a Qaraqosh, ho trovato una cittadina non povera e non in guerra. Il cambiamento per queste persone quindi è stato totale e repentino. Le loro vite sono state stravolte nell’arco di una notte, quella in cui dalle chiese sono arrivate le notizie relative all’avanzata dello Stato Islamico e gli inviti a fuggire. Oggi non sanno che ne sarà di loro. Vivono nel timore fondato che la situazione non si risolverà nel breve termine e quindi volgono lo sguardo altrove, alla Turchia e alla Giordania, per esempio. L’idea di emigrare la sentiamo spesso tra gli sfollati iracheni». «Come comunità internazionale ci mobilitiamo per acqua e cibo – conclude Patrizia – però mi chiedo se possiamo ancora definirci umani quando non siamo disposti a garantire dei visti che aiutino le persone a ricostruirsi altrove la vita che avevano fino a ieri».


    corriere.it


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