Luca Mignola

Racconti di Juarez del Sud

[Wojtek Edizioni, 97 pp., 14 euro]


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“Può esistere un labirinto, senza il suo mostro, il suo aborto, la sua danse macabre?” No, non può esistere e infatti la città labirinto di Juarez del Sud incuba nelle proprie fogne – labirinto nel labirinto – la Morgue (con “le sue ali che si dibattono al suolo, le zampette che scalciano l’aria, il verso di agonia e piacere che intona con le chele della bocca, terrore di tutte le creature dal corpo molle”) e gli tributa un sacrificio di sangue annuale. Ma il labirinto è l’intero libro, il libro stesso, in cui tutto si frammenta – frammenti (labirintici, ognuno ha il suo mostro) sbattuti in primo piano sono i racconti, ma frammenti sono anche i brevi capitoli (e addirittura i paragrafi) che i racconti compongono: l’ellissi domina tirannica su tutto – e si contraddice obliquo abolendo la struttura e al contempo postulandola. Il labirinto – e quindi la città che, lungi dal ridursi a essere contesto, è la protagonista del testo – è insolubile, il labirinto non è mai un problema, è un mistero e insegna Kerényi che “un problema si deve risolvere e, una volta risolto, scompare. Un mistero invece deve essere sperimentato, venerato; deve entrare a far parte della nostra vita. Un mistero che possa essere chiarito, risolto con una spiegazione, non è mai stato tale”. E così il lettore s’immerge nelle laide e turpi atmosfere di Juarez del Sud – dove il fetore regna sovrano – e le sperimenta intridendosene. La città è un luogo del male, della degenerazione, dell’incubo, dell’oblio, della violenza (addirittura la defenestrazione è una prassi politico-istituzionale), abitata da ombre, predoni, idoli, assassini senza memoria, naufraghi, puttane, zingari, dannati, turbe di facinorosi, genti lobotomizzate, sgorbi con la coda e le mani palmate.
Centrale è il racconto eponimo della raccolta in cui un nonno narra storie – di Juarez del Sud – ai nipoti e a cui sono affidate le riflessioni metaletterarie: “capimmo la natura di quei racconti. Erano frammenti della sua vita, epifanie dell’attimo e del ricordo, sempre slegati dal nostro contesto familiare. Racconti in frammenti liberi da ogni forma prescritta. Così il nonno ci stava insegnando a educare l’intuizione”. E i nipoti ascoltano quelle storie e per non dimenticarle – la memoria è un’ossessione che percorre il testo tutto – le scrivono e le riscrivono.
È un libro colto, anzi coltissimo, che mescola la lezione di Kafka con la fantascienza e la distopia, le suggestioni mitologiche (la ninfa Calipso, la Pizia, l’Erebo) con quelle filosofiche (Hegel) e letterarie (Rimbaud); è un libro breve e denso, esigente e generoso che mostra una realtà deturpata e che ha la consistenza profetica e impalpabile di un responso oracolare interpolato.