Un piccolo odio
Joe Abercrombie
Trad. it. Di Edoardo Rialti
Mondadori, 2019, Milano
pp 498
€ 22,00

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«Cambiamento, Vostra Altezza. A un passo e d’una portata quali non si erano mai visti prima. Un ordine che si ergeva da secoli oscilla e si torce , antiche barriere, per quanto cerchiamo di puntellarle, collassano come castelli di sabbia dianzi alla marea, gli uomini temono di perdere ciò che hanno, e bramano ciò che non possiedono. È tempo di caos» spiega l’Arcilettore Glokta – il più potente e acuto politico dell’Unione – al Principe Orso – erede al trono cocainomane e sommamente sfaccendato. Il cambiamento in atto è quello dovuto all’avvento della modernità, infatti Abercrombie esce dalle pastoie immobilistiche del classico medioevo atemporale nordeuropeo del fantasy e in questo libro – ambientato nello stesso mondo de La trilogia della prima legge tre decenni dopo – si confronta con la forza propulsiva dell’evoluzione storica: il motore della narrazione è costituito dagli sconvolgimenti sociali, politici e economici prodotti dalla rivoluzione industriale. E così protagonisti non sono più il castello, la brughiera, la spada, la cavalleria, ma le fornaci, le macchine, le forge, i cannoni – e se in copertina campeggia un elmo a testa di lupo dagli occhi di rubino, molto significativamente è contornato da degli ingranaggi. Mutano i mezzi di produzione e i modi di gestirli, una nuova classe sociale fa la sua tragica e dirompente comparsa, quella operaia, e con essa le condizioni di vita disumane, il sindacalismo (rivoluzionario e riformista), l’anarchismo, lo sciopero, il luddismo, la disoccupazione. Il grimdark – sottogenere del fantasy duro, oscuro, sporco, brutto e violento a basso tasso di magia – estremamente consapevole (l’umorismo, la parodia, il ribaltamento ironico, il gioco metaletterario, il dialogo con Tolkien e Martin) e complesso (le contaminazioni noir e western, il confronto con Hugo e Dickens nel racconto delle terribili miserie proletarie del distretto industriale) di Abercrombie fa un ulteriore passo in avanti e viene portato qui a alle sue estreme conseguenze: l’ambiguità morale trionfa, c’è l’annichilimento pressoché totale dell’epico e l’artefatto potente – che ha potere sul mondo – non è l’artefatto magico, ma l’artefatto tecnologico e addirittura però i maghi diventano banchieri perché l’artefatto finanziario – l’assegno – già sopravanza quello tecnologico nella fretta divorante e scatenata della modernità. E ancora: il realismo brutale che Martin aveva inaugurato – non disdegnando la grammatica e il repertorio del naturalismo sordido e contrapponendo il corpo integrale (con le proprie foie, deiezioni, abiezioni, deformità, ustioni, mutilazioni) al corpo epico e pudico di Tolkien – qui viene approfondito e portato fino al parossismo.