E così ha dunque inizio Jurodivye, la rubrica che curerò per La Nuova Verde incentrata sulla letteratura radicale ovvero su quella parola che vorrebbe abbattere (o quantomeno crepare) le mura del pudore e sfondare il recinto del decoro in cui la parola medesima (e lo stesso vale per la vita) è incarcerata. Il mistico, l’osceno, il morboso, lo psichedelico, l’iperbolico, il deforme, lo psiconautico, il perturbante, il teratologico, il necromantico: tutti buchi nel recinto del decoro. Tutti sovvertimenti del pudore. La radicalità ricercata è quella cinica, soprattutto nel senso del cinismo antico (Diogene sempre sia lodato!), declinata però nelle forme contorte della disperazione postmoderna che abitiamo e che ci abita. Questi contorcimenti fanno sì che la parola prolassi diventando parola eteroclita (nel senso sia di stramba che di irregolare, sfacciatamente irregolare) e di smarginamento, una parola nemica delle convenzioni tralatizie mummificanti e che intenda attentare al buon senso comune che tutto pialla e pacifica desertificando il reale, una parola quindi tormentata e ubertosa che frughi con dita ispirate da sortilegi libidici nelle viscere recondite del panorama interiore umano straziato e collassato in cerca del sacro e dell’arcano. Tutto ciò ha (forse) una funzione: aprire a picconate degli squarci rudimentali da cui eventualmente sbirciare l’autenticità relegata in una roccaforte contenitiva che la separa dall’esistenza nostra. Per autentico intendo ciò che è significativo: l’autenticità è l’esperienza dell’incontro col significativo. E per incontrarlo abbiamo bisogno di negare ciò che ci (e lo) opprime e quindi di intraprendere la via sghemba nutrendoci di cibi strani e velenosi: aberrazioni, mostruosità, vicende immonde, contenuti eccessivi, rapimenti sublimi, ierogamie ancestrali; abbiamo bisogno d’essere ingravidati della pazzia e della santità, dell’estasi e del degrado. E se spezzeremo esteticamente le catene del decoro e del pudore, se riusciremo a farlo in letteratura, torneremo poi alla vita con un granello, un semino, di senso e di autenticità in più.

Ad aprire la rubrica è un mio racconto, perché voglio prendermi la mia parte di responsabilità diretta, perché voglio essere il primo a sporcarsi le mani, perché io per primo ho bisogno di questo percorso dalla vita alla letteratura e dalla letteratura alla vita.

Il mio racconto tratta delle cose prime, della xenoteomachia ancestrale, della nascita di quella crisi cronica che è l’uomo, del cominciamento del ciclo delle divorazioni e dell’origine remota degli etruschi.

Perché su La Nuova Verde? Perché la storia delle italiche riviste parla chiaro dell’ardore spudorato con cui scorre l’iconoclastia nelle sue vene di protolettere e interpunzioni grafiche, perché è un luogo privilegiato da cui sferrare un attacco agli idola fori e agli idola theatri, per la qualità eccelsa della sua redazione.


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In principio Jahvè non creò il cielo e la terra, non pose affatto le fondamenta del pianeta, non fissò le sue dimensioni e non gettò la sua pietra angolare mentre giubilavano in coro le stelle del mattino e plaudivano tutti i figli suoi. Jahvè non era di questo mondo e quando vi giunse peregrinando nel firmamento il mondo esisteva già, lui non era solo e gli altri sideronauti non erano suoi figli, giacché non ne aveva perché era sterile, ma fratelli e cugini suoi, gli Elohim, il cui Gran Consiglio ebbe potestà suprema su tutto ciò che orbita attorno al Sole. Jahvè non plasmò il cedro, né la posidonia, né la gramigna. Jahvè non soffiò la vita nel leone, né nella mosca e né nell’anguilla. Una sola cosa creò quando giunse, adoperandosi industrioso in preda alla febbre dell’artefice ebbro: gli automi biologici a sua immagine e somiglianza, ovvero gli umani, manipolando il proprio acido desossiribonucleico e innestandolo su piattaforma genetica di scimmia antropomorfa. [Continua qui]